Padre David Maria Turoldo
ha avuto molti compagni
di strada, spesso sacerdoti
come lui, con cui condivideva
una comune sensibilità.
Uno di questi è stato don
Angelo Casati, per tanti anni parroco
a San Giovanni di Lecco e poi, fino al
2008, a San Giovanni in Laterano a Milano.
Anche lui saggista e poeta di Dio.
«La nostra amicizia veniva da lontano
», racconta. «Non era l’amicizia
dell’ultima ora – l’ora del cancro –
quando tutti, o quasi tutti, presero a
celebrarlo: anche quelli che lo avevano
osteggiato fino a pochi giorni prima.
Tutto era cominciato da un affascinamento
che risaliva ai tempi del mio
liceo in seminario. Nei seminari leggere
Montale, Ungaretti, Turoldo era
cosa guardata, direi, con sospetto. Io
invece ero affascinato dai suoi versi,
asciutti, ma abitati dallo stupore: Io
non ho mani/ che mi accarezzino il volto….
Cominciavo così a seguirlo, come
da lontano, quasi furtivamente. Erano
i tempi di una frequentazione e di
un’amicizia inespresse. Poi mi fu dato
conoscerlo da vicino: conoscere i suoi
occhi, la sua voce, le sue mani. Erano
gli anni in cui le strade si infiammavano
di immaginazione e, a volte, purtroppo
anche di violenza; gli anni del
vento per la Chiesa, vento di Pentecoste,
vento del Concilio».
Ordinato sacerdote nel 1954, don
Angelo dopo un primo periodo come
insegnante nei seminari diocesani
divenne vicario parrocchiale a Busto
Arsizio. E fu qui che incontrò per la
prima volta padre Turoldo.
«Ricordo che in quell’occasione
commentava la parabola del samaritano.
“Un uomo”, leggeva scandendo, “un uomo scendeva da Gerusalemme
a Gerico…”, e la sua voce di
tuono a sottolineare: “Un uomo, capite,
senza aggettivi, senza qualifiche o
appartenenze. Un uomo! Ti basta che
uno sia un uomo, perché tu ti senta
chiamato a fermarti”. Non ci siamo
più persi di vista. Parroco a Lecco, frequentavo
nei primi anni la sua lectio
all’abbazia di Sant’Egidio. E lui frequentava
la nostra parrocchia che lo
ospitò per tre mesi. Ricordo i tempi in
cui amici mi chiedevano: “Hai visto il
profeta?”, riferendosi a padre Turoldo.
Noi vedevamo la differenza, un abisso,
tra il suo viso, i suoi occhi, il fuoco che
l’accendeva e i visi immobili, smunti,
gelidi, truccati, di plastica di tanti cosiddetti
personaggi d’allora e di oggi.
Ciò che aveva dentro gli parlava dagli
occhi, dal viso, dalle mani. Apparteneva
a una razza scomoda, quella dei
profeti, che sono per natura disturbatori
della falsa tranquillità delle coscienze».
«Padre Davide», continua don Angelo,
«non ha mai addomesticato il
Vangelo, non ne ha mai spento il fuoco:
per lui il fuoco era il fuoco, così come il
sale era il sale, il lievito il lievito e il vino
il vino: il fuoco, il sale. David liberò la
Parola. La fece vibrare nella vita. Sulla
piazza. La predicazione di David, segnata
da passione accesa per Dio, per
il popolo, per gli ultimi della terra, non
poteva non suscitare, come ogni parola
profetica, consensi e ripudi, accoglienza
e ostilità. Dentro e fuori la Chiesa».
Don Casati continua: «Per fedeltà
a Dio e alle Scritture sacre, non poteva
non prendere la parola in difesa
degli ultimi, una categoria dell’umanità
che ebbe un posto di privilegio, terra
sacra, nella sua vita. Gli ultimi di ogni
terra e di ogni condizione sociale, gli
ultimi che Gesù difese a costo di morte
restituendo loro quella dignità di cui
spesso vengono illegalmente espropriati.
Gli ultimi, i dimenticati, volti
cancellati, inghiottiti nelle nebbie della
nostra dilagante indifferenza, nelle nostre
agghiaccianti leggi dell’esclusione,
esclusioni illegali in umanità».
«Lui, per passione fremente, per
fedeltà senza sconti, gli ultimi li volle
portare da dietro le quinte, dove l’ingiustizia
li aveva connati, sul proscenio
del palco. Infine gli ultimi furono
i suoi amici. Lui che si sporcava di polvere
e vento, uomo non delle sagrestie
ma delle strade e delle piazze che si accendevano
dove passava, s’accendevano
al sogno della giustizia e del coraggio.
L’amicizia, scriveva, dopo la Bibbia
e dopo le lettere dei condannati a morte
della Resistenza, è oasi ancora intatta/
nella memoria l’albero più verde fra tutti/
alto sulle nuove macerie».