Giunto ormai alle ultime settimane della sua presidenza (il passaggio di consegne con Donald Trump è fissato per il 20 gennaio), Barack Obama si sta levando un po’ di sassolini dalle scarpe. Per Obama uno di sassolini più scomodi si chiama Benjamin Netanyahu. È il primo ministro israeliano con il quale non è mai andato d’accordo.
Fra loro c’è stata freddezza fin dall’inizio dei loro rapporti, ma Obama si è legato al dito soprattutto il dispetto che gli fece Netanyahu nel marzo del 2015, quando ignorando la Casa Bianca si presentò al Congresso di Washington per tenere un discorso in cui espresse tutta la sua contrarietà all’accordo sul nucleare iraniano. Un accordo per il quale sia Obama sia il suo Segretario di Stato John Kerry si sono spesi molto.
La tensione fra Obama e Netanyahu è salita alle stelle il 23 dicembre, quando il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha votato la Risoluzione 2.334 in cui ha chiesto a Israele di cessare la colonizzazione dei Territori palestinesi e di Gerusalemme Est (in totale, i coloni israeliani sono 590.000). Non era la prima volta che all’ONU venivano presentate risoluzioni di questo tipo, ma in passato erano sempre state bloccate dal veto degli Stati Uniti (che al Consiglio di Sicurezza può esercitare questo diritto insieme agli altri quattro membri permanenti: Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia). Questa volta Samantha Powers, ambasciatore americano al Palazzo di Vetro, si è astenuta, favorendo così il passaggio della controversa Risoluzione.
La reazione di Netanyahu è stata rabbiosa. Il premier israeliano non ha solo accusato gli Stati Uniti per l’astensione, ma ha insinuato che l’intera risoluzione stata orchestrata da Washington. Come risposta, Netanyahu ha deciso di rimettere in discussione tutti gli impegni di Israele con le Nazioni Unite, riducendo i finanziamenti previsti, inoltre ha chiesto ai suoi ministri di ridurre i contatti con i loro omologhi dei Paesi implicati nel voto.
Mercoledì 28 dicembre un nuovo motivo di irritazione per Netanyahu è stato un discorso di John Kerry. Il Segretario di Stato americano, che durante i primi mesi del suo incarico si era speso molto per la pace fra israeliani e palestinesi, ha presentato un suo piano in sei punti per far ripartire i negoziati. Kerry propone la formula «Due Stati per due popoli, ebraico e arabo, con il riconoscimento reciproco e pieni diritti per tutti i rispettivi cittadini». Kerry ha difeso la scelta dell’astensione all’ONU affermando che «gli Stati Uniti hanno votato in linea con i loro valori» e ha aggiunto: «L’amicizia non significa che gli Stati Uniti devono accettare ogni politica. Gli amici si dicono la dura verità e la rispettano».
Mettendo da parte ogni cautela diplomatica, Kerry ha aggiunto che «l’agenda dei coloni è quella che sta definendo il futuro di Israele», accusando la coalizione guidata da Netanyahu di essere «la più a destra della storia israeliana, con un’agenda definita dagli elementi più estremisti».
La soluzione “due Stati, due popoli” è formalmente sostenuta anche da Netanyahu, ma il premier israeliano ha riposto a muso duro a Kerry, accusandolo di essere non equilibrato e «ossessivamente focalizzato» sugli insediamenti. Secondo Netanyahu, Kerry «non vede una semplice verità»: al centro del conflitto con i palestinesi c’è il loro rifiuto di riconoscere il diritto di Israele ad esistere.
In questo dialogo fra sordi si è inserito il presidente eletto Donald Trump. Come al solito lo ha fatto via twitter: «Non possiamo continuare a trattare Israele con questo totale disprezzo», ha scritto Trump. Quindi ha aggiunto: «L’inizio della fine è stato l’orribile accordo sul’Iran». Poi, un appello: «Resisti Israele, il 20 gennaio si avvicina rapidamente». Sempre su twitter, gli ha risposto Netanyahu: «Grazie per il tua calda amicizia e il tuo limpido sostegno per Israele».
Insomma, Netanyahu non vede l’ora di mettere in soffitta l’era Obama, anche se non dovrebbe dimenticare che il presidente democratico ha firmato un accordo decennale che prevede un sostegno militare americano a Israele del valore di 38 miliardi di dollari.
Vedremo se dal 20 gennaio l’ostentata sintonia fra Trump e Netanyahu porterà a qualche risultato. Trump si è sempre vantato, negli affari, di saper raggiungere accordi che sembravano impossibili. Oggi la pace fra israeliani e palestinesi è la madre degli accordi impossibili.