La prima medaglia azzurra in terra verdeoro ha il gusto amaro della sconfitta (anche se poi tra qualche giorno smaltita la delusione brillerà l'argento). Perché Rossella Fiamingo per vincere quell'oro nella spada, rimontando con tanta caparbietà e coraggio in semifinale, aveva tutto.
Solo che in finale è tutto diverso. Sempre. Si è come i tennisti di Mordillo, a giocare su un campo da tennis a un grattacielo: senza rete, senza sponde, soli con le proprie farfalle nella pancia.
E allora capita, che lì davanti a quel palcoscenico spietato, si finisca per non essere esattamente quello che si è stati fin lì. Avevano questo in comune Petra Zublasing (mira formidabile nel Tiro a segno, carabina), Vincenzo Nibali (lo squalo del Ciclismo su strada), Rossella Fiamingo (due volte campionessa del mondo di Spada individuale).
Fin lì non vacillavano mai: Petra sparava senza mancare un bersaglio, Nibali sfidava le montagne in salita e discesa, Rossella studiava tutte le avversarie, annotando pregi e difetti su un quadernino, e ne aveva quasi sempre ragione conoscendone punti forti e deboli.
Il problema è che nessuno conosce sé stesso fin lì: davanti all'abisso della sfida più grande, quella che in una vita potrebbe venire una volta sola (ma loro sono tutti giovani, hanno tempo di rimediare).
Il bersaglio, "dieci bello", come lo chiamano Petra e il suo fidanzato collega Niccolò Campriani, è facile, quasi scontato, - anche se è solo questione di millimetri a cinquanta metri di distanza -, nel chiuso verdino e ovattato del bunker in cui si allenano ad Appiano sulla strada del vino in provincia di Bolzano, ma là dentro si è soli con il bersaglio. Nella vetrina della finale olimpica si è solissmi sotto gli occhi di tutti e quel palco esposto come nessun altro, anche se da fuori magari non si vede, incrina quello che Petra Zublasing chiama il "guscio", il carapace che ti consente di chiudere il mondo fuori e di controllare anche il battito del cuore che potrebbe far tremare la canna del fucile.
La spada, il ciclismo, la carabina hanno un percorso apparentemente lineare, li capiscono tutti: vince chi tocca per primo, chi arriva primo, chi va più vicino al bersaglio. Solo che in giornate come oggi la strada semplice in apparenza si fa tortuosa nell'anima. C'entra la sfortuna certo, di si curo nella caduta di Nibali (con frattura della clavicola) e del colombiano Henao scivolati a 11 km dalla fine di una fatica tremenda. Sa di disdetta, di somma malasorte e lo è dopo cinque ore in bici, ma non sapremo mai quanto abbia inciso la foga di lanciarsi in una troppo ardita discesa tre, non sapremo mai se sia stata soltanto cattiva sorte o anche la punizione degli dei olimpici per chi ha osato troppo nell'intento rubare il fuoco. Così come non sapremo che cosa di preciso si sia spezzato sull'11 a 7 della finale a Rossella Fiamingo mentalmente solidissima fin lì. Né sapremo di preciso che cosa abbia crepato la sicurezza solitamente granitica di Petra, ma le, almeno, avrà una seconda cartuccia nella carabina tre posizioni tra qualche giorno.
O forse sì, sappiamo cos'è: si chiama paura, di vincere, di perdere, paura e basta.
Niccolò Campriani, che c'è passato otto anni fa, che ha perso Pechino all'ultimo tiro e vinto Londra, ha scritto un libro bellissimo "Ricordati di dimenticare la paura" su che cosa succede dentro in giorni così. E Petra di sicuro lo conosce a memoria. Il problema è che non vale studiarlo nelle vite degli altri: bisogna attraversarlo da soli. Perché non c'è solitudine più grande che trovarsi favoriti, con sulle spalle le attese del mondo che si aspetta la medaglia. Sembra sport, invece è vita: ed è anche per questo, che l'Olimpiade ha il fascino irresistibile che ha.