Il 2015 sarà l’anno della famiglia
grazie all’intuizione di papa
Francesco, che ha voluto due Sinodi a essa dedicati.
Dal 4
al 25 ottobre ci sarà la seconda tornata dei lavori sinodali,
sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella
Chiesa e nel mondo contemporaneo”.
Ma di famiglia si
parlerà anche a Philadelphia, dal 22 al 27 settembre 2015,
in occasione dell’VIII Incontro mondiale delle famiglie,
e poi per la celebrazione della Giornata mondiale
delle comunicazioni sociali, che ha per tema:
“Comunicare la famiglia: ambiente privilegiato
dell’incontro nella gratuità dell’amore”.
Nasce da qui
questo libro, frutto di serrate riflessioni con monsignor
Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio
per la famiglia, del quale presentiamo parte del capitolo
sui divorziati risposati.
don Antonio Sciortino
- Durante il Sinodo i Padri
sinodali si sono confrontati
ampiamente sulla
questione dei divorziati
risposati, tra chi poneva
l’accento più sulla
misericordia e la carità
e quanti ribadivano la
disciplina attuale. Ambedue le parti non hanno messo in dubbio la dottrina
della indissolubilità, come il
Papa stesso ha ribadito. Il problema
verteva sulla possibilità o meno di
ammettere, in alcuni casi e in determinate
condizioni, i divorziati
risposati ai sacramenti. La maggioranza
– sebbene non qualicata,
ossia dei due terzi – ha ritenuto opportuno che si continuasse a
riflettere evitando soluzioni uniche
o ispirate alla logica del “tutto o niente”.
A che punto è il dibattito?
«Credo sia importante procedere
per gradi in una materia così complessa.
La prima cosa che vorrei far notare
è il cambio di atteggiamento avvenuto
nella Chiesa, da alcuni decenni a questa
parte, nei confronti delle persone
credenti divorziate e risposate. Fino a
qualche decennio fa, questi fedeli erano
considerati ipso facto infames. Non
erano soltanto esclusi dal sacramento
della Confessione e dell’Eucaristia, ma
erano anche indicati pubblicamente
come spregevoli. E successivamente il
magistero, a diversi livelli, descrive la
loro situazione come di credenti che
appartengono alla Chiesa anche se
non in piena comunione: “Il coniuge
risposato si trova in una condizione di
adulterio pubblico e permanente”, ma
la comunità cristiana deve “astenersi”
dal giudicare l’intimo della loro coscienza,
dove solo Dio vede e giudica.
Non si tratta solamente di un cambio
di linguaggio ma, appunto, di atteggiamento
pastorale certamente molto
più inclusivo rispetto al passato».
- È senza dubbio un cambiamento
non indifferente. E questo richiede
un effettivo e concreto mutamento
nel rapporto della comunità cristiana
nei confronti di queste persone.
«Esattamente. E tale nuovo atteggiamento
dovrebbe coinvolgere tutti
i membri della comunità cristiana.
Purtroppo spesso non accade. Peraltro
c’è anche una notevole dose di ignoranza,
talora anche presso il clero. Ci
sono, ad esempio, sacerdoti che non
danno la Comunione neppure a quei
fedeli, divorziati, ma che non si sono
uniti a un’altra persona.
Con questo
atteggiamento contraddicono la prassi
della Chiesa e soprattutto pongono
sulle spalle di questi fedeli, già gravati
dalla fatica di un fallimento, un peso
che non debbono affatto sostenere. La
Relazione sinodale interviene esplicitamente
a tale proposito, per allontanare
denitivamente tale ingiusti-
cato e crudele abuso.
Questo mostra
l’urgenza e l’ampiezza di lavoro da fare
in questo campo. La questione che noi
stiamo affrontando è diversa: si tratta
di quei fedeli che dopo aver divorziato
si sono risposati. Ebbene – esorta
unanimemente il magistero contemporaneo
– tutti dobbiamo avere un
atteggiamento di accoglienza verso
costoro. Credo che questo sia il primo
e più urgente compito: accogliere con
amore queste persone. Non semplicemente
per pietismo. Esse fanno parte
della Chiesa e quindi vanno amate e
sostenute con spirito di fraternità. In
tale contesto vorrei spendere almeno
una parola – ce ne vorrebbero molte
di più – in favore di coloro che, pur
essendo stati abbandonati dal coniuge,
non hanno intrapreso una nuova
unione e restano fedeli alla prima
unione che giustamente ritengono
indissolubile, al di là dell’abbandono
del coniuge. Si tratta di credenti il cui
esempio invita tutti a riettere. È una
straordinaria testimonianza di fedeltà
alla indissolubilità del matrimonio. È
però vero che non tutti riescono a vivere
in questo modo. Anzi, il numero
dei divorziati risposati è cresciuto in
maniera esponenziale. E la Chiesa, che
è madre, non può non farsene carico».
- Senza dubbio è un grande progresso
pastorale essere passati dall’accusa di pubblici peccatori al dire che anch’essi
fanno parte della comunità
ecclesiale. Non le pare però che sia
importante anche esaminare la questione
dell’accesso ai sacramenti? Del
resto, già nella disciplina attuale si
prevede tale possibilità, se si rispettano
alcune condizioni.
«Sì, la disciplina attuale prevede
che i divorziati risposati possano accedere
alla Confessione e all’Eucaristia
solo alle seguenti condizioni: se in
coscienza essi si impegnano a vivere
senza avere rapporti sessuali e facendo
attenzione a non creare confusione nei
fratelli che non sanno della loro scelta
interiore; insomma, di nascosto.
È però
di non poco conto il fatto che la Chiesa
ritenga che tale unione, sebbene irregolare,
possa (anzi, in alcuni casi, debba)
permanere per evitare ingiustizie
peggiori. E si esortano questi fedeli,
proprio perché sono membri della
Chiesa, a partecipare attivamente alla
sua vita. Non possono però esercitare
alcune responsabilità ecclesiali: il lettore,
il ministro straordinario della Comunione,
l’ufficio di catechista, il padrino
o la madrina, essere membri del
Consiglio pastorale. E questo perché
tali ruoli comportano una esemplarità
che non si accorda con la loro situazione
oggettivamente irregolare.
Papa
Francesco fa capire che non si può dire
a queste persone di essere parte della
Chiesa e poi trattarle praticamente
come scomunicate! Insomma, c’è materia
per riflettere e per andare avanti
alla ricerca di qualche ipotesi per aiutare
questi fedeli a vivere il Battesimo
che hanno ricevuto e che li incorpora a
Cristo facendoli membri della Chiesa.
Essi non sono “scomunicati”, ma resi
“gli di Dio”. Andrebbe approfondita la
teologia del Battesimo anche in questo
contesto».