È coinvolgente e scoppiettante l'intervento di Antonella Anghiononi biblista, docente di Antico Testamento presso l'ISRR di Vicenza su Abramo e Sara icone di felicità. A partire proprio dalla lettura del libro della Genesi 18, una lettura guidata con un'alternanza tra Bibbia e cultura ebraica per rendere ancor più comprensibile il testo.
«Il termine matriarca in ebraico significa incenso tanto il profumo è intenso.
Nel capitolo 17 Abramo è stato circonciso, nel 18 è fuori dalla tenda dolorante.
Abramo ha 75 anni, Sara 65 quando Dio li chiama a partire. Avanti negli anni gli chiede di picchettare la tenda e promette ad Abramo due cose: una il figlio, due la terra. Promesse che si realizzano solo attraverso Sara. Il figlio si capisce, la terra è il primo appezzamento di terra in proprietà ad Abramo che sarà la tomba di Sara. Questo per dire che Dio realizza le promesse attraverso l'altro. Sara è partner nell'alleanza, non è solo moglie del patriarca. Allora, le donne decidevano e poi facevano credere agli uomini di aver deciso loro. Questo accadeva nella Bibbia, le donne lavoravano ai fianchi senza scontro e gli uomini si confrontavano con le donne per capire il volere di Dio. Nella Genesi a un certo punto Dio dice ad Abramo “obbedisci a Sara”. Dio parla sempre con Abramo. Quando Dio parla a Sara (l'angelo) lei ride. Sara non solo è sterile, ma è in meno pausa. E come ride Sara? Ride “dentro”. Eppure l'angelo dice a Sara: tu hai riso. Anche se la gioia è un precetto. Infatti Dio il primo bambino lo chiama Isac che vuol dire ridere, sorridere, gioire. Il primo nome lo decide l'uomo, da lì poi sono le donne a decidere i nomi».
La collaborazione tra Abramo e Sara
Un intervento che spazia dal testo e strizza l'occhio costantemente al cuore della settimana in corso, l'alleanza uomo-donna. «Uomini e donne che sono diversi fisicamente, psicologicamente e spiritualmente. L'uomo nei testi è sacerdote parla con Dio attraverso la testa, la donna è profetessa parla a Dio con la pancia. Come parla col figlio nella pancia anche se non lo vede. Ecco perché erano le donne che davano il nome nel momento del parto. Dato il rischio di perdere la vita donandola, erano ritenute maggiormente profetiche. E il nome scelto segnava la strada e il futuro del figlio. Sara, per esempio, è principessa. Sara dice a Dio: che promesse fai? Irrealizzabili. No, non irrealizzabili ma di certo per cui ci vuole un percorso talvolta anche doloroso. Dove nel dolore però non sei più solo ma cammini con Dio e se non ti è risparmiato il dolore però non sei solo. L'angelo risponde a Sara: nulla è impossibile a Dio. E non solo avere un figlio, ma anche vedere che Sara ride dentro. ».
C'è poi un aspetto interessante nella lettura del testo. «In questo capitolo tre uomini, tre angeli e poi Dio. Gli esegeti impazziscono. Ma chi sono? Uno è Gabriele (forza di Dio- quella parola che è un seme), l'altro è Raffael che guarisce Abramo dai dolori, infine Michel, che come in Sodoma e Gomorra, è parola di vita e poi di morte. Per noi cristiani in questo testo c'è già la Trinità».
E un dettaglio simpatico. «Sara dice: “avvizzita come sono, dovrei provare piacere mentre il mio signore è vecchio?”. Il Talmud dice che qui Dio mente pur di non offendere la virilità di Abramo... Però ricordatevi sempre che mentre Dio crea la donna l'uomo dorme. Per dire che l'uno per l'altro resteranno sempre un mistero. Allora qual è l'alleanza tra uomo e donna? La parola alleanza è inscritta nella carne dove tu credi di essere potente e generare ma tu stai dando la vita con Dio. Quando Dio in Genesi crea l'uomo e la donna gli insuffla il respiro di Dio.
Abramo e Sara nel cammino imparano ad ascoltare il loro corpo e la loro anima. Cercando Dio trovano loro stessi, cercando Dio incontrano l'altro che è il tuo Paradiso ma anche il tuo inferno. Ecco l'alleanza nella carne: viverla insieme per Dio».
La conclusione poi è assolutamente a sorpresa. «Chiudo con un verbo: persona fatta nel mondo ebraico è quella che ha tre relazioni: con l'altro, con l'Altro e con il mondo. Nel Talmud è scritto che mentre Abramo parlava di Dio con gli uomini, lei lo faceva con le donne. Abramo e Sara sono stati collaborativi in tutto. Lei muore a 127, lui a 137 lei è sepolta in una grotta acquistata da Abramo. Lui quando muore piange e... si risposa! Perché l'uomo anche nella Bibbia non sa stare da solo».
A monsignor Erio Castellucci, Arcivescovo di Modena- Nonantola, già Preside dellaFacoltà Teologica dell'Emilia Romagna, invece di capire la vera novità dell'Amoris Letitia.
«Partendo dal tentativo di recuperare la Gaudium et Spes come punto di svolta, spirito e lettera in cui Francesco ha attinto per l'Amoris Letitia. Due parole che sono controcorrente nella mentalità contemporanea che vedrebbe di più l'Amoris “Mestitia”. Purtroppo oggi matrimonio e famiglia sono associati a qualcosa di noioso più che di gioioso, addirittura a qualcosa di triste fuorché il giorno delle Nozze che si porta una certa gioia. Tolto questo giorno il resto è associato, nella mentalità comune, a crisi, disagio, eclissi, rovina. La chiesa invece osa associare il matrimonio alla gioia e alla letizia. Ora è interesante capire il ponte tra la Gaudium et Spes del 1965 e l'Amoris letitia del 2016: dopo il Concilio avticano II non c'è il vuoto, sono molti i documenti che parlano di Famiglia. La Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II, le numerose catechesi, l'Evangelii Gaudium dove uno dei principi cardine è il tempo superiore allo spazio».
Lo schema di lavoro del 1962
Ma per capire il rinnovamento è importante capire con che dottrina si arriva al Concilio. «Prevalentemente giuridica che non è un'offesa ma una riduzione. Dove la dottrina era ridotta all'ossatura del codice canonico che dice cose importanti ma non tutto del matrimonio. Il lavoro di quei tre anni di Concilio fu di integrare quel materiale con una visione personalistica. In Gaudium et spes il primo capitolo introdotto, infatti, è la famiglia per dire che è la porta che misura la società, la salute della società».
Ecco allora che si ricostruisce lo schema che, nel 1962, i padri conciliari ricevettero, riassuntivo del codice del Diritto Canonico. Un'ossatura che prevedeva: la sacramentalità del matrimonio; due elementi essenziali quali l'unità e l'indissolubilità; i tre fini del matrimonio: la procreazione e l'educazione della prole fine primario, il mutuo aiuto fine secondario e terzo fine il rimedio della concupiscenza. Meglio sposarsi che ardere, in sostanza. E poi i tre beni: la prole, la fedeltà e la sacramentalità. Nel documento mancava completamente la parola amore che non c'era nei testi. E non poteva esserci perché la visione era esclusivamente giuridica.
Quando invece la sacra scrittura vede il vincolo dell'amore coniugale non come fine ma come elemento costitutivo del matrimonio».
I precedenti
Nel 1917 si era parlato di “sostanza più vera e profonda del matrimonio”. Nel 1930 Pio XI fece sette riferimenti all'amore coniugale come causa e ragione primaria del matrimonio con un'enciclica che diede un certo coraggio a teologi che cominciarono a parlare di amore coniugale. Nel mezzo, confortati dall'apertura di Pio XI, si ridiscusse il senso e il fine del matrimonio unità a due che esige una mutua donazione dove la prole che può derivare da questo è un arricchimento dell'unità dei due e non il fine primario. Nei decenni successivi fino al Concilio furono pochi gli interventi. «Fu sopratutto un giovane filosofo che alla fine degli anni 50 Carol Wojtyla pubblicò nel '58 "Amore e responsabilità" dove fondare il matrimonio su una visione personalista basata sul rapporto dei due. Faceva scaturire dallo stesso amore coniugale tutti gli elementi giuridici e legali. E quindi che l'amore coniugale quando è vero è per sempre, aperto alla vita, con una sola altra persona deducendo in sostanza gli elementi dall'amore coniugale. Terreno dissodato, quindi, quando nel 1962 si iniziò a discutere del matrimonio, ma un grande mare mosso. Peso determinante fu quello di Bernard Haring che influì molto nella dottrina. Si arrivò a un testo che ebbe un consenso trasversale e che puntava di più sull'amore coniugale».
Le conquiste del Concilio
Nell'ottobre del '65 l'assemblea discusse e approvò il testo attuale con una minoranza combattiva, ma sempre più esigua. Nel nuovo testo fu evidente un'integrazione della visione precedente. «Nei paragrafi comparve una nuova ricchezza biblica, non si parlò più di contratto ma di patto che è un contratto che fa spazio a Dio e alla fiducia. Nel capitolo 48 il matrimonio fu definito come intima comunità di vita e amore coniugale.
Il Vaticano II non parlò più della gerarchia dei fini ma del matrimonio finalizzato all'accoglienza della vita, amore reciproco. Quale fu il guadagno? L'accoglienza dell'amore coniugale. Matrimonio e amore coniugale nella Gaudium et Spes si identificano. L'amore è attrazione e donazione insieme. Un sentimento che si deve sempre ravvivare, dove con la donazione l'uno all'altra totale può arrivare anche la nuova vita da accogliere».
La novità dell'Amoris Letitia
«Ecco allora che alla luce di tutto questo si può capire qual è stato il grande passo dottrinale compiuto dal Vaticano II e poi ripreso da Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio e poi rideclinato da Francesco. Che si innesta in questa opera di rinnovamento con accenti che non sono né ingenui né buonisti. Vedi il capitolo 2, dove il Papa segnala i drammi che nel mondo riguardano il matrimonio, la miseria materiale e morale, l'aborto, l'utero in affitto, la disoccupazione, la difficoltà di un'adeguata educazione dei figli. È dentro a questo quadro che riesce a fare un discorso positivo. La nota nuova è il tono positivo con cui parlare di matrimonio, amore, sessualità; nell'apertura a cammini di conversione di persone divorziate e riunite e l'apertura ai sacramenti; la novità sta nel principio (261) che il tempo è superiore allo spazio. La dottrina rimane integra, solo che il Papa dice che la dottrina non è un gabbia in cui si collocano le persone dentro o fuori (spazio) ma un sentiero e una meta verso cui tutti sono incamminati (tempo). La dottrina non è un corpus giudicante ma un percorso con una meta chiara in cui incamminarsi tutti insieme. Non cambia la dottrina ma l'ottica pastorale. La Chiesa non deve catalogare le persone ma accompagnare, camminare con. Il compito della Chiesa non è di sedersi alla meta e dire tu sei troppo indietro, tu sei fuori sentiero, ma di camminare insieme. Accoglienza e cammino come fece Gesù che non classificava le persone, ma le aiutava a camminare verso il Regno di Dio. Ovvero Francesco ci dice: “non bloccate le persone nello spazio in cui sono ma accompagnatele nel tempo. Con una tensione verso la meta dove la Chiesa cammina con te. L'esortazione non a caso si conclude con “Camminate famiglie, continuiamo a camminare”».