Pace, in Uganda, non è parola scontata. Lo sanno bene i vescovi del Paese che definiscono un «privilegio» la visita di papa Francesco nella loro terra e un’opportunità per «compiere atti di carità nei confronti dei poveri e per intraprendere ogni sforzo di riconciliazione e amore reciproco». Nel messaggio scritto in occasione della visita di papa Francesco e firmato dal presidente della conferenza episcopale, monsignor John Baptist Odama, tornano le tante contraddizioni di un Paese forte oggi di 15 milioni di fedeli, ma dove sopravvivono ancora poligamia, stregoneria, persino, scrivono i vescovi «sacrifici umani». E dove i conflitti etnici e la guerriglia brutale della Lord’s Resistance army hanno lasciato ferite difficili da guarire.
Ritorno a namugongo
I martiri ugandesi, fatti uccidere perché convertiti al cattolicesimo tra il 1885 e il 1887, che Paolo VI canonizzò nel 1964 e ai quali intitolò il santuario di Namugongo, nel suo primo viaggio in Africa del 1969, sono ancora oggi un esempio dal quale la Chiesa trae linfa per proseguire nella sua azione di trasformazione sociale. Non solo, sono anche stimolo per il dialogo ecumenico e con il mondo. Assieme ai 22 martiri cattolici, nello stesso luogo, si commemorano anche i martiri anglicani, tutti uccisi per la loro fede. «Grazie al loro sacrificio», ricorda mons. Odama, «la Chiesa in Uganda è diventata quella che è: una realtà vitale, che opera attraverso le sue scuole, gli ospedali e programmi di promozione umana». E non da sola. «La collaborazione con le altre confessioni religiose e le altre fedi è essenziale», ha sempre sostenuto il vescovo di Gulu, nel Nord del Paese, forte anche dell’esperienza della Acholi Religious Leaders’ Peace Initiative (Arlpi), di cui è promotore e portavoce. Un’iniziativa che, insieme anche ai leader musulmani, tenta di affrontare il dramma di questo pezzo di Paese segnato da scorribande, rapimenti, stupri, sevizie dell’Lra.
«Ci chiamarono accanto a una ragazza», ci aveva raccontato dieci anni fa un bambino che era stato rapito e aveva passato sei anni con i ribelli. «L’avevano già picchiata, ci ordinarono di colpirla ancora con sassi e bastoni. I sassi non dovevano essere molto grandi e i colpi di bastone non troppo forti per prolungare l’agonia. Dovevamo farlo per non subire la stessa sorte. E poi il comandante disse: se uno di voi cerca di scappare vi ammazzerò tutti». Costretti a uccidere i loro stessi compagni, le ragazze sorteggiate come premio per i capi, usati e usate come schiavi, molti di loro sono sopravvissuti e cresciuti in mezzo agli orrori, tanto da essere spesso respinti dai loro stessi genitori, una volta tornati liberi. O considerati essi stessi terroristi, più che vittime, da quello stesso Stato che non li ha saputi proteggere dai rapimenti. Per loro monsignor Odama e il suo vice, lo sceicco Musa Khalil, del distretto musulmano di Gulu, continuano a percorrere chilometri perché il mondo intervenga e questi giovani possano tornare a vivere da esseri umani. E il loro grido certamente arriverà al Papa.