Parlare con Salvatore Niffoi significa lasciarsi travolgere dall’arte della narrazione. Lo scrittore oranese ragiona per fatti, luoghi, memorie, nomi, usanze, proverbi, persone e collega tutti con il filo rosso di una profonda consapevolezza antropologica. «Ci sono cose che ti porti con te, come il primo capretto gemello che ti ha regalato il pastore mentre passava per casa durante la transumanza. Oggi la capacità di portarci dentro le cose, di guardare dentro il mondo, di farcelo piacere, moltissimi non ce l’hanno più», osserva. Premiato con il Campiello per il romanzo La vedova scalza (2006), Niffoi ha raccontato e fatto conosce-re l’anima della Sardegna senza mai ricorrere alla scorciatoia del folkloristico, ma sapendo rendere universale il “suo” fazzoletto di terra, come fece William Faulkner con la contea di Yoknapatawpha. I suoi romanzi ci portano in un mondo arcaico, talora fantastico, ma mai illusorio. Un mondo schietto fino alla ferocia, ma mai doppio. È un mondo sempre profondamente autentico e concreto, dove piante, montagne, utensili, tutto ha un nome preciso che va conosciuto, riscoperto e studiato. «Quando ero bambino c’era il piacere della scoperta dell’universo. Tutto era graduale – tanto l’incontro con la natura come quello con l’altro sesso – ma vissuto con lo stesso stupore di Adamo ed Eva quando scoprirono il paradiso. Oggi tutto si è fatto fumoso e uniforme. L’idea stessa della vita e della morte si è fluidificata, come dice Zygmund Bauman, perché si è perso il senso della distinzione. E l’aborto della fantasia è il peggiore dei delitti che si possano commettere»
DOPO LE IDEOLOGIE
Anche il suo rapporto con la religione non conosce infingimenti. «Per me la fede è una cosa molto concreta, con la quale ti devi confrontare sempre, quando vivi, quando pensi, quando ami, quando sbagli, quando scrivi. Ho avuto due zie monache che mi hanno abituato ad andare alla sostanza, alla concretezza, piuttosto che fermarmi all’apparenza dei riti e alla raccolta delle offerte», spiega Niffoi.
La fede è stata una riscoperta successiva agli anni di «ubriacatura ideologica», come definisce la frequentazione dei gruppi di estrema sinistra, che però non ha estinto il suo desiderio anarchico di azione e di rivolta. Desiderio al quale è in qualche modo collegato il suo esordio di scrittore, visto che Collodoro (1997), suo primo romanzo, trasfigura una rivolta popolare contro la realizzazione di una discarica per rifiuti speciali nella quale Niffoi ebbe ruolo non secondario.
Oggi che si autodefinisce un «credente bisbetico», colmo di gratitudine verso i tre padri spirituali che lo hanno accompagnato nel cammino, Niffoi sa bene che il mistero della fede si condensa in posti, tempi e modi a noi sconosciuti. «Il mondo l’ho girato quasi tutto, eppure resto convinto – e al pensiero mi chiedo se da bambino non dovessi farmi frate – che il viaggio più grande rimane quello di conoscenza di se stessi. E certamente, questo, la scrittura ti aiuta a farlo». Il suo è un cristianesimo abissale, che affonda le radici nelle acque primordiali che hanno nutrito la sua isola fin dalle epoche più remote, «per-ché il passato è un’acqua benedetta che rinfresca e disseta sempre, e non puzza mai».
In romanzi come La leggenda di Redenta Tiria (2003) i riferimenti al cristianesimo come ai culti precedenti si armonizzano. Sacro e profano si mischiano nel culto della vita, «perché senza il senso del sacro e della fede perdiamo la nostra quintessenza, siamo pecore chiuse nel recinto della tecnologia e del pettegolezzo». La provvisorietà del miracolo dell’esistenza e la domanda sul dolore innocente sono altri temi che ricorrono nelle sue opera. «Fin da bambino ho sempre sentito una in-nata simpatia per il personaggio di Giobbe, e oggi conosco praticamente a memoria quel libro che continua a interrogarmi. Pochi giorni fa è morto il mio terzo padre spirituale, don Raimondo Satta, al quale mi sono ispirato per la figura di don Ilariu Benignu, protagonista del racconto che pubblico su Credere»
IL MALE E L'ESPIAZIONE
«Don Raimondo era il parroco di Porto Cervo, lo chiamavano “parroco dei vip” ma era umile e sapeva ascoltare tutti. E quando, dopo due mesi di malattia, se ne va un amico fraterno ti ritorna la domanda: con tutti gli uomini malvagi che ci sono, perché ci viene portata via proprio una persona così indispensabile?». Eppure proprio la presenza di tanto male alimenta in Niffoi la speranza dell’espiazione, della redenzione e della risurrezione. «Quasi sempre, il miglior bene nasce dal peggior male. I più grandi santi – penso a Pietro o Agostino – hanno conosciuto bene questa connivenza obbligatoria con la iena che ci abita dentro, che vuole spezzare le sue catene e sconfiggere il nostro modo di essere, di affrontare il prossimo e noi stessi. E oggi il suo ululato è centuplicato».
Il riferimento è, ancora una volta, all’accelerazione dello sviluppo tecnologico che ha, per così dire, smaterializzato la nostra esperienza della realtà. «Mio nonno sapeva che si comunica piano piano. Lo chiamavano “Carnera”, come il pugile, perché aveva mani grandi come pale di fico d’India. Prima fece il pastore, poi il guardiano di miniera». Continua Niffoi a raccontare del nonno, riflettendo sugli esiti che ci attendono: «Era un grande appassionato di classici della letteratura, ma non vedeva altro che la famiglia e la campagna, e così le tentazioni erano ridotte al lumicino. Poi imparò a costruire sia gli apparecchi radiofonici che quelli televisivi. E già con l’avvento della televisione capì che il mondo si stava svuotando del valore primario delle parole e delle persone attraverso la fusione fredda dell’immagine, del non-essere e dello sdoppiamento.
Oggi si vedono e si sentono troppe cose, ma non si sperimentano i rischi e se ne conoscono poche. I nostri cinque sensi sono morti, se si eccettua la vista e un poco l’udito, che pure usiamo in maniera distorta. Quali saranno gli effetti di questi mutamenti feroci, di questi strappi antropologici velocissimi e incredibili? Di questo progresso accelerato e scriteriato? Non li possiamo conoscere ancora»