La scrittrice Francesca Magni
Cosa fa una madre quando scopre che suo figlio è dislessico? Ce lo racconta Francesca Magni, giornalista e autrice del libro autobiografico “Il bambino che disegnava parole” (Giunti). Il protagonista è Teo, 12 anni, vivace, bello e dalla spiccata personalità, bravissimo a scuola fino alle elementari, perché l’impatto con le medie cambia inspiegabilmente le sorti: il rendimento cala, Teo commette molti errori ortografici e spesso inventa scuse per non andare a scuola. Quando i genitori, spiazzati da quella che sembra essere una precoce crisi adolescenziale, chiedono aiuto, gli specialisti non hanno dubbi: Teo è dislessico. Da sempre. Fino ad allora era riuscito a nasconderlo utilizzando tutte le “strategie compensative” a disposizione della sua mente brillante ma adesso, di fronte alla crescente complessità che lo studio richiede, non riesce più a farlo e la sensazione di disagio a lungo celata è esplosa generando in lui ansia e nervosismo.
Inizia per lui, per i genitori e sua sorella Ludovica un viaggio verso l’isola della dislessia che traccia una preziosa mappa da condividere con chiunque viva una situazione analoga e stupirsi davanti alle meravigliose risorse della mente umana.
Il libro è ispirato alla sua storia. Come sono andate le cose?
«Un giorno mi chiamano da scuola dicendo che mio figlio è svenuto. Attacco di panico. È in seconda media, il suo rendimento è in calo e non brillante come ci si aspettava da uno come lui, che alle elementari prendeva sempre dieci e aveva uscite un po’ geniali. Mio marito e io consultiamo una psicologa, le raccontiamo la storia di nostro figlio, gli insuccessi scolastici che non ci aspettavamo insieme alle sue caratteristiche fin da bambino: curioso, con una grandissima memoria per le storie, abilissimo nel disegno e nelle costruzioni, bravo nello sport nonostante abbia qualche problema di coordinazione; e poi, a contrasto, incapace di fare cose banali come imparare i nomi dei mesi o leggere l’orologio. Lei ci ascolta e poi fa un’ipotesi: potrebbe essere dislessico. L’odio per la scuola in un ragazzino intelligente deve sempre essere un campanello d’allarme, ci spiega. Così come i disturbi del linguaggio protratti fino alla fine dell’asilo, come era successo a nostro figlio, che a 5, 6 anni ancora non pronunciava alcune lettere. Facciamo i test e il sospetto è confermato: è dislessico».
Che tipo è Teo, "il ragazzo che disegna parole"?
«Il dislessico è una persona intelligente, ma con un modo di usare il cervello diverso. Ha quella che gli scienziati chiamano una neurodiversità, derivata da alcune reti neurali disposte con uno schema atipico. La difficoltà nella lettura è solo la punta di un iceberg di un modo di essere che coinvolge anche il senso del tempo e il modo di imparare. La memoria del dislessico non funziona secondo lo schema classico "leggi e ripeti"; lui usa strategie che a un non dislessico possono sembrare astruse (associazioni bizzarre, per esempio) e ha bisogno di tempi lunghi per recuperare le informazioni. O meglio: recupera le informazioni se sono all’interno di un contesto, di una storia, ma non le recupera se sono nozioni astratte e isolate. C’è una scena nel film "Il piccolo Nicolas" che ogni volta mi fa piangere: la maestra chiede a Clotaire, il peggiore della classe, come si chiama il fiume che attraversa Parigi; lui tace per un tempo infinito, finché suona la campana; prima che esca dalla classe, la maestra gli chiede: “Clotaire, non mi hai detto che sei stato sul bateau mouche con i tuoi genitori?”, “Sì, maestra”, risponde lui, “E dove navigano i bateau mouche?”, “Sulla Senna” risponde Clotaire senza esitare. Chi conosce la dislessia sa che è così: le informazioni si fissano solo se associate a storie, meglio se con un valore affettivo, o semplicemente a dei contesti. Se chiedo a mio figlio quando è finita la seconda guerra mondiale, lui fa come Clotaire, guarda fuori dalla finestra e pensa per un tempo infinito, senza darmi la risposta. Ma se gli chiedo di raccontarmi la seconda guerra mondiale, può parlare per molti minuti, e nel mezzo inserire anche quella data. “Il bambino che disegnava parole” è un titolo che vuole evocare questo modo di funzionare della memoria e del pensiero. Vuole evocare questo tempo infinito e misterioso in cui il dislessico sprofonda quando gli si pone una domanda nozionistica, e lui si inoltra in un universo di collegamenti visivi e immaginativi tutti suoi, da cui tornerà vincente solo se gli lasceremo il tempo necessario a fare il suo percorso. Con i dislessici le parole magiche sono pazienza e fiducia».
Quali sentimenti provano i genitori di Teo, il protagonista del libro, quando scoprono che è dislessico?
«Un misto di senso di colpa per non averlo capito prima, e di sollievo per aver dato finalmente un nome a sofferenze indecifrabili. Pensano che sapendo perché Teo “sembra strano” si potrà anche aiutarlo a studiare in un modo che gli è più congeniale. Succede a tutte le famiglia, dopo la scoperta: superato il primo shock, in genere si sentono sollevate. Ma è solo un attimo, una parentesi di euforia purtroppo destinata a frantumarsi di fronte alle difficoltà che immediatamente si presentano con la scuola. Insieme al coordinatore di classe si stila il piano didattico personalizzato, si individuano gli strumenti compensativi e a quel punto gli insegnanti si rivelano: la differenza non è tanto fra quelli che sanno e quelli che non sanno, perché oggi, a 7 anni dalla Legge sui disturbi specifici dell’apprendimento (Legge 170/2010), di dislessia hanno sentito parlare tutti. La vera differenza è tra quelli che “sentono” e quelli che “non sentono”. Occorrono empatia, capacità di immedesimazione, curiosità e attenzione per il singolo dislessico – perché ognuno è diverso – per mettere in campo non solo gli strumenti compensativi previsti dalla legge (e quelli indicati per ogni caso), ma le buone pratiche di un insegnamento attento a come funziona il cervello del dislessico. Di questi insegnanti nella nostra storia ne abbiamo incontrati pochi. Preziosi e decisivi, ma davvero pochi».
Nel romanzo gli insegnanti non si accorgono della particolarità di Teo, tanto da attribuirla a problematiche caratteriali se non addirittura familiari. Credi che la scuola italiana possieda gli strumenti didattici adeguati per aiutare i ragazzi dislessici?
È dimostrato che quello che a scuola facilita le cose a un dislessico va bene anche per un non dislessico, mentre non è vero il contrario. Ma la scuola non applica una didattica su misura per i dislessici. Ci saranno sicuramente casi isolati e felici, ma non accade su larga scala. Gli strumenti didattici adeguati a un dislessico passano attraverso l’attenzione verso il suo modo di imparare e la creatività nel mettere a punto metodi e strategie di memorizzazione alternativi; ma passano anche attraverso la comprensione di che cosa sia uno strumento compensativo. Sono cose come la calcolatrice, il computer, il tempo in più nelle verifiche, le tabelle delle formule. Ma qual è il loro vero significato? Gli strumenti compensativi non sono per l’alunno: sono per l’insegnante! Servono a eliminare dalle prove dello studente dislessico gli errori dovuti al suo disturbo specifico, e quindi a permettere all’insegnante di valutare quello che l'alunno veramente sa. Faccio un esempio. Un problema di matematica svolto con la calcolatrice libera dalla fatica e dal tempo (lunghissimo, per un dislessico) per eseguire i calcoli a mente, e gli consente di impegnare tutte le energie nel procedimento per risolvere il problema. La calcolatrice aiuta l’insegnante a valutare, senza elementi “inquinanti” come un errore di calcolo, se lo studente sappia o meno risolvere il problema. Ma spesso gli insegnanti concedono gli strumenti compensativi con scetticismo verso la loro efficacia e diffidenza: il retro pensiero velenoso è che lo stiano facilitando – e abbiamo la pessima abitudine di pensare che la buona scuola sia quella difficile, non quella efficace. Oppure pensano che non potranno dargli voti alti, perché lui usa delle “stampelle”. In realtà il dislessico con gli strumenti compensativi è come un miope con gli occhiali, non è avvantaggiato rispetto a uno che ci vede bene senza.
Quale è stato il passaggio più difficile che ha affrontato nella stesura del libro e quale il più bello?
«La cosa più difficile è stata circoscrivere, mettere un punto, mentre la vicenda reale che ispirava il romanzo andava avanti nella realtà. Il libro si chiude con Teo che finisce le medie, ma intanto nostro figlio affrontava già il primo anno di liceo e io avrei voluto raccontare tutto quello che continuava ad accadere. Ora la storia reale, diciamo il “sequel” del libro, la sto raccontando sul mio blog www.lettofranoi.it. E non è una storia facile. Il momento più bello, invece, è stato quando mio marito, nonché mio primo lettore, leggendo a poco a poco capiva cose che all’inizio per lui sono state più difficili da accettare che per me. Il libro alla fine è stato di grande aiuto a tutta la famiglia per riflettere sui nostri modi di essere e conoscerci meglio».
Quale consiglio darebbe ai genitori che vivono la sua stessa situazione?
«Leggere il libro e scatenare un passaparola! No, non scherzo: chi lo legge mi cerca su Facebook o sul blog e mi scrive per raccontare la sua storia di dislessia. Raccontarci queste storie, rispecchiarci gli uni negli altri, non semplicemente ci fa sentire meno soli (e mi accorgo che c'è un enorme bisogno di questo): ci rende una squadra di persone che hanno capito cos’è la dislessia. Tutti insieme possiamo diventare moltiplicatori di conoscenza. La dislessia è una neurovarietà, come il mancinismo. Sono convinta che un giorno i dislessici a scuola saranno trattati come oggi i mancini. Se ci uniamo e ci raccontiamo, se continuiamo a trasmettere a chi non sa quello che ormai – anche grazie alle neuroscienze – sappiamo, quel giorno per i dislessici arriverà più in fretta».