«Se avessi ascoltato la mia vita come questa musica, forse non sarei qua dentro»: parola di detenuto. Di sicuro, Alejandro Jaraj, coordinatore del laboratorio musicale Vlp Sound, situato nella stanza 17 del 3° raggio del carcere milanese di San Vittore, ha inteso ascoltare i bisogni di chi è privato della libertà.
Il risultato è una vera sala di registrazione all'interno dello stesso carcere. I collaboratori si chiamano Roy Paci, trombettista di fama, Vittorio Cosma, tastierista della Pfm, Carlo Marrale, chitarrista dei Matia Bazar. Perché non si fa musica per far passare il tempo. A San Vittore si suona veramente, tutti i giorni, 20 ore alla settimana. Obiettivo: un cd all'anno. E un sito: www.vlpsound.it, da cui più di 4.000 persone hanno già scaricato gratuitamente. E che presto diventerà ancora più appetibile.
«Perché dobbiamo attirare gli sponsor», spiega Alejandro, educatore di formazione, e per passione arrangiatore, flautista e percussionista. L'obiettivo non è il ritorno economico, ma le spese di produzione sono reali. «La nostra musica potrebbe tranquillamente essere inserita nel mercato discografico, ma non è il nostro intendimento. Il riscatto dell'individuo non è monetizzabile».
In sei anni sono più di 100 i detenuti che hanno partecipato al laboratorio e solo in 5 sono tornati a delinquere. «Esprimersi tramite la musica non assicura una guarigione certa e completa, ma può innescare un processo di trasformazione e portare a un cambiamento profondo nelle scelte di vita. Anche la relazione con l'altro ne guadagna. Chi suona assieme, si rispetta e si ascolta».
A crederci è anche l'amministrazione penitenziaria, che ha accettato di buon grado l'idea dello spazio musicale e spesso sono gli stessi agenti a indicare chi inserire nel laboratorio. Niente pietismi, niente mutuo soccorso, solo qualità. «Chi chiede di poter far parte del gruppo, deve aver avuto qualche esperienza precedente, oppure deve avere una così grande passione per la musica che gli permette di essere alla pari con i colleghi nell'esecuzione. Siamo la voce di 1.600 persone e dobbiamo essere una voce bella, precisa. Da parte loro, innanzitutto, impegno, perché, oltre alle prove collettive, c'è lo studio personale. Io esigo rigore, ed è faticoso per chi nella vita ha preferito le scorciatoie. Ma, mentre proviamo, il carcere resta fuori. Non importa il reato. Se vedo che una persona ha la musica dentro, per me è ok. Non è quello il luogo dove far confusione con le ingiustizie del mondo. Quando Ndje suona, non è più un delinquente. Il meccanismo basilare per lavorare in carcere è separare la persona dal reato. La musica tira fuori la parte sana».
"Con la musica il detenuto si riconosce persona. E si sente felice"
La preparazione del cd inizia a febbraio, dopo le audizioni, e termina a dicembre, giusti per Natale. Non è semplice lavorare con i detenuti, ma Alejandro, argentino di nascita, ha insegnato musica nelle favelas di Buenos Aires. «Sono uno che viene dalla strada, uno che parla il loro stesso linguaggio».
Poi ci sono le questioni pratiche. Essendo San Vittore, una casa circondariale, c'è un grande turn over. «A volte si suona in gruppetti, altre volte anche con una sola persona; in genere, hanno dai 25 ai 45 anni. Il risultato è splendido perché nelle canzoni c'è un pezzetto di vita di tutti quanti vi hanno partecipato.
I ritmi sono i più svariati perché in carcere si ritrovano a suonare italiani, africani, sudamericani, ognuno ci mette del suo. Si fondono e convivono molto elementi. Non dimentichiamo che il 65 per cento dei detenuti di San Vittore sono immigrati. Il cd dello scorso anno, intitolato “Lost song”, conteneva un mix di hip hop, samba brasiliana, rap e melodico nostrano. In pratica, l'espressione di tutto il mondo che sta dietro quelle sbarre».
Quasi tutto. «Preferisco non partecipi chi ha commesso reati sessuali e chi è in carcere perché ha “cantato”, perché ne andrebbe della loro sicurezza», aggiunge Alejandro.
– Come agisce la musica in chi ha commesso un reato?
«Con la musica il detenuto si riconosce persona. E si sente felice. È una breccia aperta per una visione diversa di sé stessi. Significa che l'umano è ancora lì, nascosto da qualche parte. Se emerge, questo aiuta a non tornare a delinquere».
– A te che cosa dà questa esperienza?
«La possibilità di leggere la realtà così com'è. Il carcere è un osservatorio particolare e preciso di come va il mondo. Io mischio il sociale con l'arte. Verificare quotidianamente la potenza dell'azione sociale è stimolante. Dai e ricevi».
E, come recita l'etichetta, Vlp, vale la pena.