Il 22 aprile a Piacenza viene posata una pietra di inciampo per Francesco Daveri, avvocato cattolico che per la sua attività antifascista e partigiana morì in un campo di concentramento. Incarnò gli ideali di Ac preghiera, azione e sacrificio, morendo a 42 anni con sei figli piccoli per non essersi risparmiato nella lotta per la libertà e la giustizia secondo i valori cristiani. Dalle sue lettere si evince una visione della politica come servizio (come voleva Paolo VI, G.B.Montini, da lui stimato e conosciuto quando erano giovani) per attuare un “avveramento dei principi cristiani sulla terra”. Alla cerimonia interverranno anche uno dei primi biografi, il giornalista Rai Alessandro Forlani e altri studiosi. Per il 25 aprile sarà a Piacenza la Presidente dell’AnpC nazionale, l’ex ministro Maria Pia Garavaglia, anche per fare memoria di questo partigiano cristiano che fu il fulcro del Clnai piacentino ed era stimato da Parri e De Gasperi. Definito un partigiano “bianco”, Francesco Daveri nella sua lotta di resistenza al nazifascismo non imbracciò mai un fucile e amava dire che la sua unica arma era il rosario. Morì nel campo di concentramento di Gusen il 13 aprile 1945, pochi giorni prima della sua liberazione (5 maggio). Piacentino, avvocato, animato da una profonda fede, fu padre di sei figli e nonno dell’omonimo illustre economista Francesco Daveri, docente alla Bocconi. Alla sua vita la concittadina Leili Maria Kalamian, docente di Italiano e Latino, ha dedicato il romanzo L’avvocato di Dio (Le Piccole pagine), con un corpus di lettere di Daveri in appendice. «Mi sono imbattuta nel suo nome nell’archivio di mio nonno Giuseppe, che fu suo amico», racconta Kalamian. «Cartoline che i due si scambiavano, una lista di libri che gli aveva prestato e il suo santino funebre. Questo nome così ricorrente mi ha incuriosito e mi sono documentata su di lui, ho anche conosciuto una delle sue tre figlie, Mariapia. Ci sono alcune biografie, ma la sua vita conserva delle zone d’ombra che solo un romanzo poteva provare a colmare. Volevo restituirgli una voce». Attivo sin da giovane nell’Azione cattolica, aveva organizzato un percorso di formazione spirituale, lo Studium Christi, coinvolgendo don Primo Mazzolari e Andrea Trebeschi (anch’egli morto a Gusen), amico di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, con il quale scriveva sul giornale La Fionda di Brescia. Quando Mussolini fu destituito, fece un gesto clamoroso, bruciando pubblicamente il suo ritratto e finendo quindi nella lista nera della Repubblica di Salò. Fu condannato a cinque anni di carcere, scappò in Svizzera e si adoperò per mettere in salvo i profughi italiani. «Parri e De Gasperi lo nominarono prefetto del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai) e se fosse sopravvissuto avrebbe di sicuro avuto un ruolo importante nella nuova Repubblica. A Milano, mentre stava svolgendo una delle sue rischiose missioni, qualcuno lo tradì. Fu mandato prima a Bolzano come prigioniero politico, poi a Mauthausen e infine a Gusen. Testimonianze dei suoi compagni di prigionia parlano di un uomo devoto che organizzava gruppi di preghiera nella sua baracca all’interno del campo. Daveri ha vissuto da santo, per lui anche la politica era servizio cristiano. Lo chiamavano anche l’avvocato dei poveri perché non faceva pagare i clienti meno abbienti. Nella sua ultima lettera alla moglie scrive: “Parla di me e di Dio ai nostri figli”. Il mio auspicio è che venga aperta una causa di beatificazione, come è accaduto per il suo amico Giuseppe Berti, proclamato Servo di Dio».