Il film di montagna è tra i generi più difficili.
Almeno se dalla dimensione più o meno
documentaristica si vuol salire di livello fino
alla fiction vera e propria. Perché mai
come nel filmare la fatica di un alpinista si
nota la differenza tra riprese fatte dal vero,
in parete e quelle ricostruite in teatro di posa.
E soprattutto perché è davvero arduo trovare
attori a loro agio sulla roccia quanto nella
recitazione faccia alla cinepresa.
Docu-film esclusi, di pellicole capaci di restituire
allo spettatore, almeno in parte, il brivido
mozzafiato di una scalata se ne contano
sulle dita di una mano. Su tutte Assassinio
sull’Eiger, girato e interpretato nel 1975 da
un Clint Eastwood in forma smagliante, più
lodato dai critici per le scene di montagna
che per la sgangherata trama spionistica.
Convincente anche la prova di Sean Connery
in Cinque giorni un’estate, filmato nel 1982
dall’austriaco emigrato a Hollywood Fred
Zinnemann. Sono poi passati dieci anni prima
di rivedere sullo schermo scene spettacolari,
girate sui picchi delle Dolomiti, grazie a
Cliffhanger di Renny Harlin con un Sylvester
Stallone, però, spesso rimpiazzato dalla controfigura
Wolfgang Güllich, uno dei più bravi
arrampicatori di tutti i tempi. Suggestive
infine anche le sequenze con Chris O’Donnell
in Vertical limit, che Martin Campbell ha
filmato nel 2000 spacciando il neozelandese
Monte Cook per il K2 himalayano.
A sovvertire ora questa speciale classifica è
North Face - Una storia vera che esce nelle sale
italiane dopo essere stato applaudito al Festival
di Locarno. Pellicola di una bellezza e
di un rigore abbaglianti, che racconta l’impresa
di un gruppo di alpinisti sul versante
nord dell’Eiger: a detta degli esperti, la scalata
più ardua delle Alpi. Quella narrata non
è un’arrampicata qualsiasi, bensì la tragica
sfida, realmente accaduta nel 1936, in cui si
mescolarono ideali sportivi e propaganda politica.
Il più bel film di montagna di sempre.
«Un complimento che fa grande piacere e
ripaga delle tante difficoltà», sorride il regista
e sceneggiatore Philipp Stölzl, 43 anni, tedesco
di Monaco, noto finora per video musicali,
spot e regie d’opera. «L’idea è stata fin
dall’inizio quella di raccontare una storia
straordinaria con il maggior realismo possibile.
Non doveva sembrare un film di montagna
stile Hollywood, tipo Cliffhanger o Vertical
limit, dove la scalata è assai poco credibile
per la maggior parte del tempo. Mi sono
ispirato piuttosto al documentario La morte
sospesa di Kevin Macdonald, dove chi guarda
ha l’impressione che la cinepresa si stia arrampicando
con gli alpinisti. Proprio come
un fotografo di guerra in mezzo alle truppe».
Suggestione che inchioda lo spettatore
facendogli sentire il gelo nelle ossa, il vento
che sferza i sogni più ancora che la pelle,
la disperazione del vuoto, la strenua voglia
di continuare a salire a ogni costo. Luglio
1936: nei saloni e sulla terrazza panoramica
del lussuoso albergo ai piedi della parete
nord dell’Eiger si ritrovano ricchi villeggianti,
giornalisti, fotografi. Un posto comodo e
caldo da cui rimirare chi sputa sangue cercando
di aprire, per primo, una nuova via alla
vetta. A riscaldare l’atmosfera è la sfida lanciata
dai giornali tedeschi e dal partito nazista per dar gloria al Terzo Reich alla vigilia
delle strombazzate Olimpiadi di Berlino. Mix
esplosivo che porterà alla morte uomini dai
caratteri e dalle ideologie differenti. Due cordate
attaccheranno i 1.800 metri finali delmuro
dell’Eiger: una coppia austriaca, accecata
dal mito nazista, e il duo tedesco formato da
Toni Kurz e Andi Hinterstoisser. Alpinisti veri.
«Le storie di questi giovani mi hanno letteralmente
catturato», spiega Stölzl. «E mi affascinava
l’ambigua atmosfera dell’epoca».
Si spieghi meglio...
«C’è qualcosa di esistenziale nei tentativi
di scalata di quegli anni. Giovani con scarse
prospettive partivano in bicicletta per scalare
montagne pericolose con corde di canapa,
chiodi e ramponi. Erano alla ricerca di un
obiettivo da perseguire, uno qualsiasi, pur di
dare senso alla loro vita. Pronti a morire. I
nazisti amavano questo flirt fatalistico con la
morte eroica. Sul piano intellettuale, bastava
un ulteriore piccolo passo e il Reich
avrebbe marciato sugli Urali!».
Ha girato North Face in condizioni
estreme. Le maggiori difficoltà?
«Non sono mai facili le riprese di
un film, neppure in un bar. In montagna
diventano tre volte più difficili:
prima fai indossare le imbracature
a tutti, poi li devi portare sul set,
quindi monti le attrezzature tecniche. A quel
punto, magari, inizia a piovere. È frustrante».
Ha mai temuto di non farcela?
«Sì. Una volta, dovevamo girare un dialogo
di Toni e Andi su una cima. Ci serviva una
giornata luminosa. Le Alpi ci hanno concesso
sprazzi di 5 minuti di sereno. Tremendo per
gli attori recitare così. Peggio che fare roccia».