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lunedì 11 dicembre 2023
 
un fisco "globale"
 

Una Web Tax per redistribuire le risorse del digitale

30/04/2021  A fronte di ricavi stellari i giganti della Rete e dell'e-commerce hanno fatto finora il bello e il cattivo tempo pagando pochissime tasse. Ma ora, grazie all'alleanza tra Biden e l'Unione europea ...

Amazon, Google, Facebook eBay, Airbnb, Netflix, Uber, Booking.com. Ormai tutti conosciamo questi colossi della Rete che utilizziamo tutti i giorni per lavoro, acquisti, intrattenimento. I loro ricavi sono stellari.  Un’inchiesta di Visual Capitalist ha appurato che la sola Amazon registra un milione di dollari di ricavi al minuto. Ma quanto pagano di tasse queste immense galline digitali dalle uova d’oro? Pochissimo. Tanto per fare un esempio, nel 2019 il fatturato complessivo di gran parte di queste multinazionali è stato di 3,3 miliardi di euro a fronte dei quali hanno versato tasse per 70 milioni. Netflix ha pagato 6 mila euro di imposte, meno di un contribuente italiano della fascia bassa. Come è possibile? Semplicemente spostando la sede legale in Paesi dove le tasse sono basse, bassissime. La chiamano “ottimizzazione fiscale”. Stati “corsari” come l’Irlanda, l’Olanda, il Lussemburgo o anche l’Inghilterra accolgono le multinazionali del Web a braccia aperte e praticano quello che si chiama “dumping fiscale”. «Per la tassazione delle società multinazionali, specie quelle operanti quasi esclusivamente sul Web», spiega Stefano Carta, commercialista dello Studio Mazzocchi&Associati ed esperto di imprese digitali, «si può osservare che tale discrasia sembri derivare da un mercato sviluppatosi in relativamente poco tempo, capace di conseguire ingenti utili, nei confronti del quale gli ordinamenti, sia a livello nazionale che comunitario hanno tardato innanzitutto a inquadrare il problema e rispondere in maniera coordinata».

Il “dumping fiscale” crea in seno ai Paesi dell’Unione europea una corsa al ribasso (per attirarare le multinazionali nel proprio Paese) che impoverisce le casse degli Stati. I clienti sono imprese immateriali, che non hanno bisogno di stabilimenti sul territorio come nell’automotive. Si vendono prodotti e servizi in Italia ma la sede ad Amsterdam o in un’isoletta delle Cayman. E nessuno, fino a poco tempo fa, se ne lamentava, perché il principio in Europa era che le imposte si pagano nel Paese in cui si risiede fisicamente. Un’incredibile miopia che non teneva conto dei tempi nuovi, della nuova struttura immateriale delle multinazionali 2.0. Il fisco europeo fino a poco tempo fa andava alla ricerca di macchinari, fabbriche, terreni, dipendenti, reti logistiche, fornitori, mentre bastava accendere un pc per capire dove stava la vera mucca da mungere. Come è stato possibile che le multinazionali del Web potessero sfuggire “legalmente” alle tasse per tutto questo tempo? «La chiave è proprio nella loro natura sovrannazionale rispetto a logiche fiscali che hanno come criterio la territorialità», spiega Alessandro Curioni, presidente di Di.Gi. e docente di Sicurezza informatica all’Università Cattolica di Milano, «Le Big Tech hanno una territorialità che è quello del Web. Ma la Rete per sua natura non ha confini e non esiste alcun Stato capace di rivendicarne la sovranità. Banalmente, quando facciamo un acquisto su Amazon scopriamo che la sede si trova, non a caso, in Lussemburgo. Anche in questo contesto lo sforzo dei legislatori di “rincorrere” la società dell’informazione si sta rivelando estremamente complesso».
Per non parlare di un altro problema: la proprietà intellettuale. I colossi del Web attingono a piene mani nella Rete e poi li rimettono in ciclo nel cyberspazio senza pagare i diritti di copyright, una delle cause della crisi dell’editoria. Che si può fare per evitare che i produttori di contributi muoiano? «La risposta è semplice», prosegue Curioni, «costringendo i colossi del Web a pagare per i contenuti che utilizzano. Non voglio essere frainteso perché semplice non significa facile. Si tratta di costruire un sistema in cui tutti i contenuti siano “valorizzati”, ma soprattutto di comprendere quanto essi producono per le Big Tech in termini di valore, e non si tratta in prima istanza di denaro, ma di informazioni riguardanti gli utenti che quei contenuti hanno fruito».

Per tentare di risolvere il problema, il 21 marzo 2018 la Commissione europea aveva presentato la ormai famosa “Web Tax”, ovvero un progetto di tassa sui servizi digitali. E l’Italia? «Anche il nostro Paese, con la legge di bilancio 2019 si è dotata, sulla scorta dell'esperienza francese, di una propria Web Tax», spiega il fiscalista Stefano Mazzocchi titolare dello Studio Mazzocchi & Associati, «ossia una tassa sui servizi digitali con applicazione di una aliquota pari al 3% sui ricavi derivanti dai servizi digitali forniti nel territorio dello Stato. I soggetti passivi individuati sono le imprese, anche non residenti, aventi ricavi globali pari ad almeno 750 milioni di euro, dei quali almeno 5,5 milioni derivanti da servizi digitali realizzati in Italia. A causa dell'emergenza Covid la Web Tax italiana è stata rinviata più volte e dovrebbe debuttare del prossimo 16 maggio con il versamento di quanto spettante in relazione all'anno di imposta 2020». Ma sul progetto di Web Tax si è abbattuta l’improvvisa ma determinante sterzata americana sulla “Minimum Tax”, che vorrebbe sottoporre le multinazionali, anche quelle digitali a un’imposta universale che coinvolge tutti i Paesi Ue e Ocse, in modo da impedire il “dumping fiscale”. Proprio perché i colossi erano americani, la precedente amministrazione tendeva a respingere qualunque ipotesi di tassazione all’estero. Ma con Biden il vento è cambiato: i nuovo inquilino della Casa Bianca ha bisogno di risorse per finanziare il suo piano di stimoli economici da duemila miliardi di dollari, l’American Rescue Plan, che dovrebbe permettere al suo Paese la ripresa dopo gli effetti devastanti della pandemia. Un piano ambizioso che echeggia il New Deal di Frankling Delano Roosvelt e la Grande Riforma di Lyndon Johnson degli anni Sessanta.

«La proposta dell'amministrazione Biden», conclude Mazzocchi, «punta ad alzare l'aliquota dell'imposta sui redditi delle imprese al 28% obbligando le aziende americane a versare l'eventuale differenza qualora abbiano subito prelievi impositivi minori all'estero. Tale riforma si accompagna alla creazione di un sistema armonizzato di tassazione sui redditi delle imprese su scala internazionale, attuando il prelievo fiscale non sulla base del reddito globale dell'impresa, ma rapportandolo sulla base di quanto conseguito Paese per Paese. Questa ambiziosa rivoluzione globale dovrebbe costituire una risposta alle ”tensioni”, anche interne alla stessa Unione Europea, originate dalla presenza di Paesi considerati a regime fiscale privilegiato. La riforma sembra rispondere alla crisi dell'imposta sui redditi delle aziende, la quale non ha mai permesso di ottenere un gettito fiscale in linea con le attese». La Minimum Tax è una proposta alternativa alla Web Tax, di cui a quel punto non ci sarebbe più bisogno, perché si tratterebbe di un accordo internazionale che non lascerebbe vie di fuga ai giganti del Web. Una rete per i colossi della Rete che finora hanno fatto il bello e il cattivo tempo.-

 

 

 

 

 

 
 
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