Farmaci contro malattie infettive
che fanno strage nei Paesi
più poveri. Meccanismi biologici
che riparano il Dna, la molecola
che si trova in ogni nostra
cellula e nella quale sta
scritto il patrimonio genetico di tutti gli esseri
viventi. Sono le due scoperte che hanno
vinto il premio Nobel 2015, la prima per
la Medicina, la seconda per la Chimica. Riconoscimenti
che fanno riflettere. Molti
credono che le malattie più terribili e diffuse
siano cancro, ictus e infarto. Ma è così
solo in Occidente. Nel Terzo Mondo è ancora
la malaria a fare paura: in Africa uccide
un bambino ogni 60 secondi, è presente
in 97 Paesi, ne sono affetti tre miliardi di
persone, 450 mila l’anno muoiono. Neppure
i ricchi sono risparmiati: ogni mese mille
turisti contraggono la malaria in luoghi
di vacanza esotici. Il Nobel per la Medicina
ha premiato la cinese Youyou Tu per la scoperta
di un nuovo farmaco contro la malaria:
l’artemisina.
La cosa insolita è che Youyou Tu proviene
dalla medicina tradizionale cinese.
Come formazione, è più una erborista che
una farmacologa. Oggi ha 84 anni. Ne aveva
39 quando, nel 1972, scoprì il principio
attivo in un’erba comunissima: l’artemisia.
Passarono decenni prima che la medicina
ufficiale ne riconoscesse le virtù terapeutiche,
cosa che avvenne solo negli anni Novanta
del secolo scorso. Dodicesima donna
a ricevere il Nobel per la Medicina, Youyou
Tu è anche un simbolo: ha scoperto un rimedio
povero per un Paese povero, il regime
di Mao l’ha perseguitata, con lei per la
prima volta uno scienziato residente in Cina
vince il Nobel, ha sempre lavorato lontana
dalle multinazionali farmaceutiche.
Molto diversi sono gli altri due scienziati
che divideranno con lei i 900 mila euro
del premio. Sono il microbiologo irlandese
emigrato negli Stati Uniti William C. Campbell,
85 anni, professore emerito alla Drew
University di Madison (Wisconsin) e il giapponese
Sathoshi Omura, 80 anni, professore
emerito alla Kitasato University, 60
chilometri da Tokyo. Entrambi hanno scoperto
farmaci, l’avermectina e l’ivermectina,
efficaci nel combattere la cecità fluviale
(o oncocercosi), la filariosi e altre infezioni
parassitarie che complessivamente nel
mondo colpiscono più di 300 milioni di
persone. La cecità fluviale è una malattia
infettiva causata da un verme filariforme
parassita, l’Onchocerca volvulus, diffuso in
Sud America e in Africa dalla puntura di un
moscerino, così come la malaria è trasmessa
dalla zanzara Anopheles. Tre milioni di
persone hanno perso la vista per questa
malattia che l’Organizzazione mondiale
della sanità considera la seconda causa
di cecità tra le patologie di origine infettiva
(la prima rimane il tracoma). I vermi
generati dalle uova trasmesse dalla puntura
del moscerino sono sottilissimi – hanno
un diametro di qualche decimo di millimetro
– ma possono raggiungere il mezzo
metro di lunghezza. L’avermectina, l’ivermectina
e altri farmaci della stessa famiglia
ora sintetizzati in laboratorio agiscono
come potenti antielmintici uccidendo
questi vermi con molecole che bloccano
l’attività elettrica nei loro muscoli.
Dalla medicina pratica alla ricerca di
base, quella che ha dato il Nobel per la
chimica a Tomas Lindahl, Paul Modrich
e Aziz Sancar. Indipendentemente l’uno
dall’altro, questi tre biochimici hanno scoperto
come riusciamo a mantenere intatto
(o quasi) il nostro patrimonio genetico
per tutto l’arco della vita correggendo gli
errori che continuamente si verifi cano
nella copiatura del Dna a causa di radiazioni,
fumo di sigaretta, alimentazione, inquinanti,
ma anche per il naturale processo
di invecchiamento.
Tomas Lindahl è stato il pioniere di questi
studi. Svedese, 77 anni, ha iniziato la sua
carriera al Karolinska Institutet di Stoccolma
e ha diretto nel Regno Unito l’Istituto
di ricerca sul cancro intitolato a Francis
Crick, uno degli scopritori della struttura
a doppia elica del Dna. Lindahl partì, all’inizio
degli anni Settanta del secolo scorso,
da una semplice osservazione: quella del
Dna è una molecola molto fragile, deboli
radiazioni o un piccolo aumento di temperatura
sono suffi cienti per danneggiarla.
Ancora più fragile è l’Rna, la molecola
cugina del Dna che di esso “copia” le parti
utili per dirigere la costruzione delle centomila
diverse proteine di cui siamo fatti.
Oltre alla fragilità di queste molecole,
c’è un altro problema: ognuno di noi nasce
dall’unione di due cellule, l’ovulo femminile
e lo spermatozoo maschile, che nell’atto
della fecondazione fondono il loro Dna
contribuendo con 23 cromosomi ciascuno
a formare il nostro patrimonio di 46 cromosomi.
Dopo una settimana l’ovulo fecondato
si è già moltiplicato in 128 cellule
e la moltiplicazione continua fino ai circa
centomila miliardi di cellule che costituiscono
il nostro organismo. Le quali a loro
volta continuamente si riproducono e
muoiono. A ogni riproduzione il Dna della
cellula deve essere ricopiato alla perfezione,
cosa alquanto improbabile.
Poiché la frequenza degli errori di copiatura
e dei danni dovuti a fattori esterni è
stimabile in circa 200 all’ora, Lindahl concluse che se non esistessero meccanismi di
correzione e riparazione del Dna la vita sarebbe
impossibile e la Terra sarebbe deserta.
Decise quindi di mettersi a studiare come
il Dna rimane stabile malgrado tante copiature
e aggressioni.
Possiamo paragonare la doppia elica del
Dna a una scala a chiocciola con 3,2 miliardi
di gradini ognuno dei quali corrisponde
a un’informazione genetica ed è formato da
particolari accoppiamenti di quattro molecole
dette “basi”: adenina, timina, guanina
e citosina. Lindahl scoprì che cosa succede
quando uno scalino si rompe. La citosina
può facilmente perdere un gruppo amminico
e formare una base chiamata uracile
(che si trova normalmente nell’Rna). L’uracile
non può unirsi alla guanina e quindi lo
scalino resta spezzato. Interviene allora un
enzima, il glycolase, che scopre il danno e
taglia via l’uracile; un’altra coppia di enzimi
rimuove i resti difettosi e l’enzima polymerase
completa il restauro dello scalino.
I raggi ultravioletti e il fumo di sigaretta
causano un altro tipo di danno: strappano
una delle due eliche. Aziz Sancar, nato in
Turchia 69 anni fa e trasferitosi negli anni
Settanta all’Università del Texas a Dallas e
poi all’Università del North Carolina, ha scoperto
che in questo caso l’enzima exinuclease
rileva il danno, il polymerase lo rimedia
con una specie di “toppa” e un altro enzima,
il ligase, rimette a nuovo la parte danneggiata.
Quanto a Paul Modric, 69 anni, laurea a
Stanford e cattedra alla Duke University, ha
completato il lavoro dei colleghi tracciando la
mappa, enzima per enzima, di tutta la “cassetta
degli attrezzi” che – sotto la direzione di
appositi geni – vengono impiegati per rimediare
anomalie che possono verifi carsi nella
copiatura del Dna o per agenti esterni.