Nell’agenda del Senato è fissato l’avvio della discussione in aula del disegno di legge sulle unioni civili (cosiddetto Cirinnà). E il dibattito si è improvvisamente infiammato. Una cosa, però, è chiara, in questo inizio 2016: gli italiani non intendono dare una delega in bianco su un tema così importante e tuttora controverso, al punto che quasi in ogni partito si riscontra una forte differenza interna di valutazioni e orientamenti.
Il Parlamento dovrà deliberare, ma non potrà illudersi di decidere, su un argomento del genere, passando sulla testa delle persone. La famiglia è troppo importante, nell’esperienza quotidiana del nostro Paese, perché ci si illuda che una scelta delle aule parlamentari venga accettata supinamente. Lo conferma la presenza di forti movimenti di opinione e di piazza, pro o contro il testo di legge in discussione, che hanno già dimostrato la propria vivacità. Per una volta, servirebbe davvero maggiore ascolto, da parte dei parlamentari, nei confronti del senso comune del popolo, soprattutto sui punti più controversi del disegno di legge: l’identità della famiglia e la possibilità dell’adozione di un bambino da parte di una coppia di persone dello stesso sesso.
Sul primo aspetto il disegno di legge in discussione è ancora troppo “simil-matrimonio”; parla spesso di “coniugi” in riferimento ai partner delle unioni civili, generando un’ambiguità che rischia di impedire anche il legittimo riconoscimento dei diritti delle persone nelle unioni civili. Serve più chiarezza costituzionale, nel riferirsi solo all’art. 2 (formazioni sociali), distinguendo nettamente – ed esplicitamente – dall’art. 29, specificamente riservato all’unione matrimoniale tra uomo e donna.
Sulla questione dell’adozione dei bambini alle coppie dello stesso sesso, sia pure nella forma limitata della stepchild adoption, l’attuale formulazione dà per scontato che la differenza sessuale dei genitori sia irrilevante per il benessere del bambino. Secoli di storia e di scienze umane documentano il contrario. Inoltre, fatto ancora più grave, il testo sembra costruito per aprire, in prospettiva, la legittimazione di forme di procreazione artificiale che portano, inevitabilmente, all’uso del corpo delle donne come “fabbrica di bambini per altri”.
Su questo dovrebbe far pensare il grande dibattito internazionale contro ogni ipotesi di commercializzazione della maternità, dove anche una parte del pensiero laico e femminista, anche in Italia, sta finalmente dicendo un “no” grande come una casa. E non basta sostenere la gratuità della maternità surrogata, che significa ospitare per nove mesi nel proprio corpo il figlio di qualcun altro. Troppo prezioso e unico è il legame tra madre e figlio, anche nei nove mesi di gravidanza, per renderlo subordinato ai desideri e presunti diritti di altri adulti.
Al Parlamento un compito difficile, quindi: prendere una decisione, per chiudere finalmente un dibattito infinito sui diritti delle unioni civili, cercando però un punto di equilibrio che sappia promuovere e tutelare la famiglia. Oggi il testo in discussione non è in grado di garantire questo risultato. Ne tenga conto, ciascun parlamentare, quando dovrà decidere. La fretta rimane una cattiva consigliera, soprattutto in questo caso.