Ivano Dionigi, rettore dell’Alma Mater di Bologna e presidente della Pontificia Accademia della Latinità, lo dice con rammarico. Non per niente è tra quelli che si sono sempre battuti per il diritto alla studio. Nella crisi attuale l’Università di Bologna gode di ottima salute. Tengono i numeri, 87.000 studenti con una flessione del 5% nelle immatricolazioni delle lauree triennali ma un aumento dell’8,7% degli iscritti alle lauree magistrali. Tiene soprattutto la qualità. Quest’anno, nella graduatoria Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione delle università), l’Alma Mater si è classificata quarta per la ricerca ma seconda tra i mega atenei, mentre il Censis la conferma prima assoluta per il quarto anno consecutivo.
«Potrei avere la tentazione di cavalcare un modello analogo a quello della Normale di Pisa, una scuola di eccellenza aperta solo ai bravissimi, ma tradirei la vocazione della nostra università, che è nata proprio dalle associazioni degli studenti. Abbiamo il dovere etico di educare un Paese che va verso una deriva di analfabetismo. Se devo scegliere tra rendere migliori i bravissimi o aumentare il numero dei bravi, scelgo la seconda opzione. Senza ripensamenti»».
- Quest’anno però a Bologna parte un nuovo corso di design industriale a numero programmato…
«Dobbiamo distinguere tra i corsi a numero chiuso per legge, come medicina, veterinaria, architettura, e i corsi a numero programmato, che sono a discrezione delle singole università. Non posso evitarli, sia perché devo garantire la copertura didattica per tutta la durata del corso - e oggi per dieci docenti che vanno in pensione il ministero ne concede due, a noi tre perché il nostro ateneo è giudicato virtuoso - sia perché va salvaguardata la qualità (per esempio devo avere un numero adeguato di laboratori), e anche uno sbocco occupazionale. Lo dobbiamo alle famiglie. In un paese civile però dovrebbe essere la politica a decidere di quanti insegnanti, magistrati, medici abbiamo bisogno. Io non sono per un numero chiuso che suoni "ad escludendum", ossia per uno sbarramento irrazionale e draconiano. Non possiamo permettercelo. Viceversa, una seria ed equilibrata politica di programmazione consentirebbe anche una redistribuzione efficace di personale e di studenti».
- E i test d’accesso? Molti li ritengono inadeguati.
«I test sono effettivamente un male necessario. Ma la patologia potrebbe essere alleviata con scelte di sensibilità e di intelligenza».
- Per esempio?
«Per esempio è insensato pretendere di selezionare i candidati alle scuole di Medicina con solo 5 domande su 60 di cultura generale. I test non dovrebbero essere una mera verifica di conoscenze settoriali (fisica, chimica e biologia), ma dovrebbero consentire di saggiare la maturità della persona e le motivazioni vocazionali»
- Aggiungerebbe un colloquio?
«No, il colloquio è troppo discrezionale. I test hanno un po’ il sapore della lotteria, ma ci tutelano dal rischio della raccomandazione. Se decidessi io, aggiungerei, almeno per alcuni corsi, un test attitudinale. E assegnerei una più elevata percentuale del punteggio complessivo sulla base del curriculum del triennio delle superiori, standardizzato a livello nazionale. In questo modo anche le scuole sarebbero costrette a tenere alto il tiro».
- Molte famiglie si trovano in difficoltà per i costi dei corsi di preparazione ai test: l’università non potrebbe farsene carico?
«Ci sono ottimi corsi completamente gratuiti, anche qui a Bologna. Comunque si torna sempre al tema del diritto allo studio e alle scelte politiche. Se non vogliamo che le proposte rimangano parole ci vogliono risorse: alle università oggi la classe politica chiede non solo di svolgere al meglio le proprie funzioni senza dare le risorse necessarie, ma chiede anche di colmare tutte le lacune accumulate negli anni precedenti . C’è un evidente deficit della politica, e noi siamo chiamati a un’opera di supplenza».