Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
lunedì 16 settembre 2024
 
VERSO IL SINODO
 

«Uno stipendio a ogni mamma»

02/08/2014  A ottobre, l'assemblea dei vescovi discute di famiglia, di matrimonio, anche di divorziati e risposati. Intanto, Giovanni Paolo Ramonda, neoeletto presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, invoca un cambio di passo e riforme vere, attente a chi è aperto alla vita

Giovanni Paolo Ramonda. Foto della Comunità Papa Giovanni XXIII.
Giovanni Paolo Ramonda. Foto della Comunità Papa Giovanni XXIII.

«Ci sono poveri oggi che non riescono nemmeno ad alzare il braccio per chiedere l’elemosina, che non cercano alcun aiuto, poveri estremi che non si rendono conto di esserlo, che non hanno il coraggio di chiedere. Noi dobbiamo cercare quelli».
Giovanni Paolo Ramonda ha preso il testimone dalle mani del prete di strada più famoso d’Italia, don Benzi, quello che girava di notte con una tonaca nera tutta stazzonata con sopra un colletto bianco e strappava prostitute alla strada, cercando di far loro capire la bestialità dello sfruttamento a cui erano state condotte.
Quando don Oreste Benzi è morto nel 2007 la Comunità Papa Giovanni XXIII ha nominato Ramonda “ad interim” suo presidente. E adesso gli ha affidato anche il secondo mandato con l’88 per cento dei voti. Piemontese di Fossano, 54 anni, ha in casa tre figli suoi e altri nove accolti.

Ha imparato da don Benzi ad andare a cercare i poveri. Oggi la Comunità Papa Giovanni XXIII è presente in 33 Paesi: conta, in tutto il mondo, 447 strutture, di cui 347 in Italia tra case di accoglienza, case famiglia, cooperative di lavoro, comunità terapeutiche.
Quelle di pronta accoglienza, dove non si fa tante storie per aprire le porte, si chiamano Capanne di Betlemme, perché loro fanno come i pastori con Maria e Giuseppe, un giaciglio subito pronto e poche domande.

Giovanni Paolo Ramonda con una parte della sua numerosa famiglia. Al centro  la moglie Tiziana, a sinistra una dei tre figli naturali,  con due nipotini. A destra : Rossana, una delle 9 persone  accolte nella casa famiglia. Foto della Comunità Papa Giovanni XXIII:
Giovanni Paolo Ramonda con una parte della sua numerosa famiglia. Al centro la moglie Tiziana, a sinistra una dei tre figli naturali, con due nipotini. A destra : Rossana, una delle 9 persone accolte nella casa famiglia. Foto della Comunità Papa Giovanni XXIII:

- Presidente, l’Italia come è messa?
«Troppi poveri e pochi soldi. C’è la sanità e la scuola. Per ora va. Ma bisogna vigilare per evitare che venga smantellato lo Stato sociale». Lei di cosa è preoccupato? «Della corruzione. Sta dilapidando soldi pubblici a beneficio di pochi. E poi dei privilegi, troppi. Le dico solo che abbiamo da poco aperto un albergo solidale a Rimini. È sempre pieno. Ospita interi nuclei familiari, disoccupati, sfrattati».

- Ha ragione il Papa quando dice che la solidarietà è diventata una parolaccia anche da noi?
«Certo. C’è troppo conflitto tra le generazioni. I giovani sono nulla. Io do credito a Matteo Renzi. Ma lo aspetto sulle cose concrete: lavoro ai giovani, aiuti alle cooperative sociali, al Terzo settore, all’artigianato, politiche fiscali, lotta alla corruzione. Per ora la creatività l’abbiamo vista nelle parole. Invece occorrono interventi strutturali».

- Al primo posto che cosa bisogna mettere, secondo lei?
«La natalità e il sostegno alle famiglie. Una mamma deve avere uno stipendio, perché è un gran lavoro. Senza figli il Paese non va da nessuna parte. Quello che manca ai politici è l’intelligenza sociale, cioè il sapere da dove partire».

- Già, da dove?
«Nel 1981 la Chiesa italiana aveva chiesto di ripartire dagli ultimi. Sono passati quasi 35 anni e siamo ancora qui. Gli ultimi sono aumentati e noi non siamo stati capaci di metterci al loro passo. Anche la Chiesa può fare di più. Adesso c’è un Papa che ce lo dice. Mi chiedo se lo ascoltiamo davvero».

- Qual è stato l’errore?
«Non siamo andati a cercare gli ultimi. Abbiamo regalato qualche spicciolo a chi tendeva la mano. Non siamo andati oltre la beneficenza. Oggi occorrono politiche strutturali contro la povertà e cioè nuove politiche fiscali e lavoro. E poi bisogna essere chiari nel denunciare e affrontare le ingiustizie provocate dall’economia e dalla finanza. Una nuova moralità».

- Anche la Chiesa deve fare autocritica?
«Sì, e il Papa la sta favorendo. Ha ragione a dire che i pastori devono avere l’odore delle pecore. Ma non basta. Noi dobbiamo stare più vicini ai nostri vescovi, aiutarli a stare dentro la realtà delle famiglie che faticano ad arrivare alla fine del mese, a camminare al passo dei poveri».

- Come procede il processo di beatificazione di don Oreste? «Stiamo concludendo la raccolta dei documenti e poi si aprirà la fase delle testimonianze. Il 20 dicembre incontreremo il Papa in un’udienza speciale a Roma a dieci anni dall’incontro con Giovanni Paolo II. Stiamo rafforzando la presenza della Comunità all’estero, in Africa e soprattutto in Asia: la nuova frontiera è in questo ultimo continente, perché lì l’evangelizzazione passa attraverso l’impegno con i poveri. La condivisione con gli ultimi è un linguaggio che tutti comprendono, anche i non credenti. È l’unico linguaggio eloquente della fede alla prova del dialogo con le grandi religioni dell’Asia».

 
 
Pubblicità
Edicola San Paolo