Due anni or sono, la Northeastern University di Boston pubblicò uno studio che calcolava il tasso di disoccupazione nazionale in base al reddito, parametro che le statistiche ufficiali, di solito attente a razza, età, istruzione ecc… non prendono quasi mai in considerazione. Dal rapporto emergeva quanto la crisi, che in quel periodo raggiunse il picco massimo, colpisse più duro tra i ceti meno abbienti, riducendo i suoi effetti in modo esponenziale nelle fasce più benestanti.
Addirittura emerse che tra i più poveri (meno di 12.000 dollari lordi l’anno) i potenziali lavoratori “a spasso” erano più del 30%, mentre tra i più ricchi (135.000 dollari o oltre) erano appena il 3%. Per arrivare - decimale più decimale meno - a un 8% circa (dato comunque altissimo per gli USA) nella fascia media e più "affollata" dei redditi dai 40 ai 60.000 dollari.
Uscito nell’inverno 2010, quando la disoccupazione, superò – per la prima volta dal 1983 e la seconda dal 1940 – la soglia psicologica della "doppia cifra” (il 10%), lo studio fece molto scalpore, specie nel dibattito nazionale sulla forbice tra “ricchi” e “poveri”.
Ma non tutti gli analisti concordarono. Quelli, attenti, dello storico magazine conservatore National Review, ad esempio, fecero notare quanto il reddito fosse un parametro fuorviante, poiché in America perdere uno stipendio da oltre 100.000 dollari l’anno fa scendere immediatamente o quasi di una fascia o due. Fu anche pubblicata una statistica che considerava gli aumenti, nel tempo, del tasso di disoccupazione dimostrando che tra i meno abbienti era cresciuta addirittura di meno: nelle due fasce di reddito più basse risultò del 67 e del 78% mentre in tutte le altre, superava il 100%.
Il fatto è che ancora oggi, nonostante il dato nazionale (8,5%) sia leggermente migliorato, in America è dura per tutti. Da quando nel 2008, come si dice in gergo è “scoppiata la bolla immobiliare” seguita a ruota da quella finanziaria, negli Stati Uniti è tanto facile perdere il lavoro, quanto è difficile trovarne uno nuovo.
Attualmente, secondo le cifre del Department of Labor (il Ministero del Lavoro USA) il 6% degli americani (circa 14 milioni di individui) guadagna, o almeno dichiara, più di 100.000 dollari l’anno - o come dicono qui “six figures”, sei cifre - altra importante soglia psicologica.
In testa alla classifica dei redditi figurano i CEO (ammmnistratori delegati) con una media di 240.000 dollari l’anno; poi medici e chirurghi, 140.000; dentisti, 133.000; avvocati 126.000; e piloti di linea, 120.000 (i quali però, considerando i tempi di lavoro effettivo guadagnerebbero, l’ora, più di tutti).
Intorno ai 100.000, figurano gli "executive" (noi li chiamiamo manager), ovvero i responsabili dei dipartimenti marketing, vendite, finanza, tecnologia e ricerca di aziende – grandi medie o piccole che siano - soggetti, a licenziamenti repentini e senza preavviso anche in tempi di “vacche grasse”.
Per loro, e sono tanti, la crisi ha reso più efferata la competizione e più estrema la precarietà. In un momento del genere, posti di lavoro da 10.000 dollari al mese, sono più rari che mai. Chi li cerca, rischia di stare al palo per mesi, per anni, o per sempre, abbandonando una carriera su cui ha investito tutto – da costosissime lauree a, spesso, elementi importanti di vita privata.
E, quasi sempre, senza suscitare, né la compassione, né tantomeno la simpatia, di nessuno.
Ma, almeno in America, c’è chi aiuta (pagando, s’intende) questi manager dispoccupati sia a trovare lavoro sia – e spesso è questa la sfida maggiore - a non perdere sé stessi.
A prima vista sembra un ufficio come tanti: scrivanie separate al centro, piccole stanze intorno, una più grande per le riunioni con lavagna e proiettore, grandi finestre con vista sul lato-parcheggio di un tipico “office park”. In effetti Transition Solutions, è un ufficio normale solo che chi lavora qui in realtà il lavoro non ce l’ha, bensì lo cerca. «La mattina è importante avere un posto dove andare», dice Steve , 53 anni, disoccupato dallo scorso ottobre, quando la finanziaria in cui guadagnava circa 150.000 dollari l’anno, l’ha "lasciato andare", come dicono qui, per "riduzione del personale".
Steve, che come molti nella sua situazione preferisce non rivelare il cognome, racconta di essere già stato 18 anni or sono cliente, soddisfatto, di questa “outplacement firm” - praticamente un'agenzia di collocamento privata che, invece di cercare direttamente lavoro a chi non ce l’ha, aiuta a trovarselo da soli fornendo oltre a consulenze personalizzate, una struttura fisica, dove, tra le altre cose, incontrare altri “cercatori” e partecipare, con loro, a sessioni informative di gruppo. «Molte delle cose che faccio qui potrei farle ovunque», ammette Steve, che trascorre qui almeno 30 ore a settimana. «Ma psicologicamente è tutta un'altra cosa. A parte il fatto poi che a casa … ci sono i suoceri», conlude scherzando, ma non troppo.
Questo business che, vista la cronica precarietà del lavoro, esiste da un pezzo gode oggi più che mai, coi tempi che corrono, di ottima salute. Nella sola Boston, dove la crisi colpisce in verità molto meno duro che altrove, operano almeno una dozzina di “executive outplcement firms” – dove "excutive" significa: dai 90.000 dollari in su. Generalmente, le paga l’azienda di provenienza del “cliente” (in media un migliaio di dollari al mese) come parte del cosiddetto "severance package", il pacchetto buonuscita, di solito negoziato all’assunzione, che da un po’ di respiro al licenziato in cambio del suo impegno ad astenersi da lunghe e costose cause legali.
E di solito questi “one-stop-shopping” (punti-vendita-tutto-compreso) del collocamento di lusso funzionano.
Come nel caso di Dana Groves, trovatosi, dopo vent’anni di lavoro in un’azienda di apparechiature mediche, disoccupato, da un giorno all’altro, nell’estate del 2010 – quando la crisi dell’impiego toccò i massimi storici. «Emozionalmente ero a dir poco disastrato», racconta Dana, al tempo 51 enne, e con la pensione nemmeno all’orizzonte. «Dovevo rimettermi in gioco in un mondo che era totalmente cambiato – anche tecnologicamente - da quando, nei colloqui di lavoro rispondevo alle domande, invece che farle: in pratica dovevo riabituarmi a essere, all’occorrenza, rifiutato e respinto».
In questo senso, nonostante la “outplacement” cui si rivolse non abbia in organico psicologi professionisti, fu il "coaching" personalizzato a fare la differenza, ricorda Dana, che quattro mesi dopo era già insediato nel suo attuale lavoro, simile al precedente come settore, ruolo e soprattutto come stipendio (circa 110.000 dollari l’anno).
«Fondamentali gli incontri con i colleghi disoccupati, in cui ognuno raccontava la sua settimana», conclude Dana, «un po' per capire come andava il mercato ma anche e soprattutto – proprio come nella terapia di gruppo - per non sentirsi gli unici al mondo a trovarsi in quella situazione».
«Per quanto sia utile affidarsi a "professionisti" del settore, per sopravvivere ed eccellere in un mercato del lavoro senza pietà come quello americano, sono strategia e approccio personale a fare la differenza», afferma Giuliano Rubini, 42 anni, barese analista finanziario, e in passato cliente anche lui entusiasta di una di queste aziende "cercalavoro" ad alti livelli. Formatosi in Italia, all’Università Cattolica di Milano, poi trasferitosi in America per un MBA alla Boston University, Rubini naviga da 15 anni nel difficile mondo aziendale a stelle e strisce, crescendo, almeno sinora in maniera costante, sia di ruolo sia, soprattutto, di stipendio.
«La flessibilità è la prima cosa, e non solo in senso geografico», consiglia Rubini che, spostandosi di settore in settore seguendo i vari "boom" (Internet, biotecnologie, ambiente), ha portato il suo compenso dai 35.000 dollari del 1997 fresco di laurea ai 135.000 del suo ultimo incarico. «Al nostro livello siamo tutti mercenari», osserva. «L’importante è rimanere fedeli alla propria funzione e crescere all’interno della stessa, in altre parole considerarsi degli specialisti. Un po’ come i dottori negli ospedali».
E aggiunge: «Quando si perde un lavoro non serve piangersi addosso: bisogna invece approfittare del tempo a disposizione per riqualificarsi, aggiornarsi, migliorare le proprie competenze. Il giorno in cui smetti di "affilare la tua spada" sei finito».
Prosegue il manager Rubini: «Oggi per cercare lavoro ci sono strumenti che all’inizio della mia carriera erano impensabili. Una volta avevi 40 biglietti da vista in tasca, oggi con strumenti come Linkedin hai tutto il mondo a portata di "mouse". Certo, bisogna saperli usare, senza dimenticare che i rapprorti interpersonali non passano mai di moda. Se un agente ti ha aiutato a trovare lavoro, continua a chiamarlo, e magari ogni tanto portalo a pranzo».
E conclude: «Mentre si lavora – e si guadagna - è importante mettere da parte il necessario per almeno sei mesi di disoccupazione: i “rainy days” (giorni di pioggia) come li chiamano qui. È importantissimo, lo dico per esperienza, non cercare lavoro con l’acqua alla gola, altrimenti rischi di accontentarti di offerte che possono rovinare il resto della tua carriera».