Ferruccio Laffi con l'autrice del libro Margherita Lollini
"Le atrocità compiute non dipendevano da scelte individuali dei militari impegnati sul campo, bensì erano parte integrante di un preciso disegno strategico ideato al vertice del Reich": è il cuore della sentenza (non ancora definitiva) del Tribunale civile di Bologna sulla strage di Marzabotto in cui si riconosce il diritto risarcitorio ai familiari delle vittime sulla base della pronuncia della Corte costituzionale italiana del 2014. Secondo quanto stabilito dal tribunale del capoluogo emiliano, la Germania dovrà dunque risarcire i parenti dei civili uccisi dai nazisti. Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 quattro Compagnie del 16 Reparto Ricognitori della Panzergrenadier division Reichsfuhrer SS assassinarono circa 800 persone fra cui centinaia di donne, anziani e bambini, anche di pochi mesi.
Sono passati quasi 78 anni da quando, il 30 settembre 1944, Ferruccio Laffi, novantatreenne di Marzabotto, scoprì la strage di quasi tutta la sua famiglia a opera dei nazisti. Nel rievocare quei terribili momenti le lacrime tornano a riempire i suoi occhi. Un dolore infinito, incancellabile, che per tanti anni si è tradotto in incubi che lo facevano svegliare di notte. «Allora non c’erano psicologi che ti potessero aiutare a rielaborare l’orrore e il lutto, e quella visione, i corpi di laniati dalle mitraglie, con gli animali che ne facevano scempio, e il dolore per i miei cari che non c’erano più, mi ha accompagnato per tutta la vita». Anche perché la vicenda terribile di Ferruccio non finì quel giorno, ma continuò per i mesi a seguire. Soltanto dopo decenni ha deciso di raccontare. «Solo mia moglie Sara sapeva, i miei colleghi di lavoro ignoravano quello che mi fosse successo, anche perché mi ero trasferito a Bologna, mentre in vecchiaia sono tornato a vivere a Marzabotto e dalla finestre di casa mia vedo ancora la collina in cui c’era la casa della strage». Com’era la sua vita prima dei giorni dell’eccidio e i mesi di lavori forzati in condizioni disumane per i nazisti sono ora raccontati nel libro Io, sopravvissuto di Marzabotto. Storia di un uomo, storia di una strage (Longanesi), scritto da Margherita Lollini. Quello di Marzabotto fu il più grave eccidio di civili della Seconda guerra mondiale nell’Europa occidentale: vi morirono più di 800 persone, quasi tutte donne, bambini e anziani, perché gli uomini, pensando che i nazisti volessero solo rastrellare la forza lavoro da mandare nei campi in Germania fuggirono nei boschi. E accadde così anche a Ferruccio Laffi, che allora aveva 16 anni. Quando in famiglia capirono che i nazisti si sarebbero presentati alla porta del loro casolare a Colulla di Sotto, uno dei tanti borghi alle pendici del Monte Sole, lui e i suoi due fratelli maggiori andarono a nascondersi nei boschi. A casa lasciò 18 persone: i genitori, il fratello minore Lino (altre tre fratelli se li era già inghiottiti la guerra), le cognate e tanti nipotini, l’ultimo nato da soli 28 giorni (la più giovane vittima della strage di Marzabotto), e una famiglia di sfollati. Dal loro rifugio non riuscivano a vedere cosa stava accadendo, sentivano solo in lontananza degli spari. Non sapevano che il giorno prima la strage era già iniziata nella poco distante Casaglia. All’arrivo dei nazisti la popolazione atterrita si era rifugiata nella chiesa. Dopo aver freddato il parroco don Ubaldo Marchioni, che invano aveva tentato di mediare, i tedeschi avevano ammassato i civili nel locale cimitero e li avevano mitragliati: 197 vittime. Quando i tre fratelli ritennero che ormai i nazisti dovevano essere andati via, tornarono verso casa, da dove si levava una colonna di fumo. Quello che videro fu il più crudele degli scempi. I familiari erano stati fatti uscire nell’aia con l’inganno, avevano con sé delle valigie.
Lì erano stati falcidiati dalle mitragliatrici, i corpi a brandelli, animali e galline che imperversavano impietosamente su di loro. In un angolo, denudato, il padre, che sadicamente era stato costretto ad assistere alla morte di tutti i suoi familiari prima di essere a sua volta ucciso. A Ferruccio, Vittorio ed Ettore rimanevano solo le lacrime e il compito di seppellire i loro cari in una fossa comune, così come accadde in tante altre case della zona. Ma per Ferruccio non era ancora finita: catturato dai nazisti i giorni successivi, fu costretto a quattro mesi di lavoro disumano: portare a spalla carichi pesanti sotto le intemperie, con le scarpe sfondate, senza mai lavarsi e quasi nulla da mangiare. Separato dai due fratelli, uno dei quali sarebbe morto di lì a poco per una bomba, fu sottoposto a una finta fucilazione, poi tentò di fuggire, e alla fine della guerra era malconcio ma vivo. E vivo, anzi sopravvissuto, come lui stesso si definisce, è rimasto per 77 anni. «Solo quando nel 2006 vennero a cercarmi per testimoniare al processo di La Spezia contro dieci ufficiali nazisti, che ovviamente non si presentarono alla sbarra, decisi di uscire allo scoperto. Il processo finì con dieci condanne all’ergastolo, e da allora ho rievocato quei momenti in eventi pubblici nelle scuole, nelle università, nei gruppi scout. I registi Stefano Ballini e Lorenzo K. Stanzani hanno girato su di me anche due documentari. E ho avuto l’occasione di incontrare il Papa e il Presidente Mattarella. La fede, che pure era forte da ragazzo, l’ho persa quel giorno maledetto, ma ciò non mi impedisce di essere un buon amico del cardinale Matteo Zuppi e di essere un fan di papa Francesco». La proposta di scrivere un libro gliel’hanno fatta in tanti, ma Ferruccio ha sempre rifiutato: «Non ho la cultura necessaria, ho fatto solo pochi anni di elementari. Poi però ho incontrato Margherita». «Avevo visto il fiim Silenzio sul Monte Sole», dice Margherita Lollini, «e rimasi molto colpita dalla testimonianza di Ferruccio. Ho poi trascorso tre mesi nei luoghi dell’eccdio e ho deciso che volevo ricostruire questa vicenda terribile attraverso la storia di Ferruccio. Abbiamo passato insieme il mese di agosto del 2020, lui mi ha raccontato tutto con estrema precisione, ha una memoria di ferro. Il libro l’ho scritto come se fosse lui stesso a rievocare la sua vita». Quello di Ferruccio e Margherita è un rapporto fatto di affetto e stima reciproca, come è inevitabile che accada quando si condivide una storia come questa. Ferruccio ha aperto la sua casa anche a noi, ha voluto prepararci il pranzo, con le verdure dell’orto che coltiva con amore. A dispetto dei suoi 93 anni è perfettamente autonomo, continua a guidare e ad andare in bicicletta, a fare su e giù i tre piani di scale della sua casa senza ascensore quattro volte al giorno. «Se sono sopravvissuto a tutta la mia famiglia ci sarà un perché, far conoscere a tutti quello che è accaduto ha dato un senso al mio dolore».
Così commenta la sentenza Ferruccio Laffi: «Questa sentenza e questo risarcimento avrebbero avuto un senso anni fa, quando ancora ci stavamo costruendo una vita faticosamente e da soli, con le nostre mani. Ora è solamente un gesto tardivo e forse anche poco utile a così tanti anni di distanza».