«Ci vuole un linguaggio nuovo e nuovi leader», insiste padre Neuhaus, «e da questo viaggio ci aspettiamo proprio un impulso del genere. Di proseguire su quell'apertura che avevano avviato sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI quando sono venuti qui». Certo, «l'obiettivo della visita di papa Francesco è spirituale e non politico. Viene per ricordare l'abbraccio con l'ortodosso Atenagora e per proseguire sulla via dell'unità. Il suo viaggio è importantissimo per la vita interna della Chiesa. Ma anche per dare un nuovo impulso all'evangelizzazione che vuol dire possibilità di pace vera».
Per padre Neuhaus qui si gioca la vocazione della Chiesa: «Parlare un linguaggio che non sia di guerra. Parole e gesti nuovi. Non abbiamo parole per dire la pace. Dal 1948 in poi il linguaggio politico, economico, sociale usa parole di guerra. Sia in Israele sia in Palestina si parla di sopravvivenza, difesa, lotta. Tutto è diviso tra amici e nemici. Ma, ripeto, qui è la vocazione della Chiesa: far vedere chiaramente che non c'è posto per l'odio verso gli ebrei, per la paura dei palestinesi, per l'antisemitismo, per l'anti-islam. Se lavoriamo in questa direzione, questo linguaggio sarà pronto per il momento in cui ci saranno nuovi leader in grado di adottare queste parole e di mostrare che c'è un altro modo di vedere la realtà. Che non tutto è paura e paranoia». «Lo dico da sudafricano», aggiunge padre Neuhaus: «ci vuole un Mandela e Dio può fare questo, può mandare uno dei suoi profeti. Ma noi dobbiamo preparare la strada. Oggi non riusciamo a immaginare un mondo diverso da quello che conosciamo, con muri, eserciti, guerre, paura. Ma la Chiesa può aprire ad altre visioni, può far vedere la bellezza, può promuovere l'incontro vero. Sono certo, già da come sono stati fatti i preparativi per il viaggio di papa Francesco, che si muoverà in questa direzione». «Non ci aspettiamo discorsi politici, ma un incoraggiamento. Siamo stanchi. Il processo di pace si è arenato, la vita per i palestinesi, sia cristiani sia musulmani, è sempre più faticosa», aggiunge padre Ibrahim Faltas, della Custodia di Terra Santa. Nel suo libro da poco pubblicato, Dall'assedio della Natività all'assedio della città, ripercorre i 39 giorni dell'occupazione della basilica che anche il Papa visiterà a Betlemme. «Non è solo un libro di memoria», dice nel suo ufficio nel quartiere vecchio di Gerusalemme, «c'è il cammino, e anche i passi indietro, fatti in questi dieci anni. C'è l'assedio da parte dei coloni alle città palestinesi, c'è l'arresto delle speranze. Anche se abbiamo confidato molto sia nella visita di Benedetto XVI sia nel Sinodo sul Medio Oriente che lui ha convocato subito dopo aver visto la situazione di questi Paesi, adesso c'è un momento di stanchezza evidente. L'esortazione che ha consegnato in Libano è stato un passo importante che ha dimostrato quanto la Chiesa ha a cuore la Terra Santa, ma ancora non basta. Qui si vive nella paura e nella rassegnazione».
Chi può va via, anche se sono sempre di meno i palestinesi che lasciano queste terre. «Bisogna avere mezzi anche per andarsene. E con la crisi di lavoro che c’è nel resto del mondo non è facile partire. Quello che più preoccupa però», aggiunge padre Neuhaus, «è il problema dei cristiani che lasciano spiritualmente e anche mentalmente questo luogo. Si ritirano nel ghetto, hanno paura del mondo attorno, si sentono alienati, non partecipano più alla vita pubblica, non vogliono uscire dai piccoli luoghi ove possono creare un posto sicuro. Sentiamo sempre più spesso dire dai palestinesi musulmani che, anche nei posti dove ci sono cristiani, loro non li hanno mai incontrati nella loro vita. Come Chiesa questo è quello che ci preoccupa di più. E anche su questo punto speriamo che la visita del Papa incoraggi i cristiani a uscire, ad aprirsi, a tornare a impegnarsi nella società».
Facile a dirsi, ma difficile a farsi in un Paese dove la vita è una continua guerra di nervi e di resistenza, di conquista del terreno metro dopo metro, di costruzioni e distruzioni. «In un contesto dove si è sottoposti a continui controlli, arbitrii, in cui non si è liberi di andare e venire dai luoghi santi, in cui si fa fatica per avere accesso ai servizi, per passare i check point, tutti i problemi si ingigantiscono», spiega padre Raed Abusahlia, direttore di Caritas Gerusalemme e a lungo portavoce del patriarcato latino. «Si fa il doppio della fatica per portare avanti progetti di sviluppo del territorio e per mantenere la speranza».
Ne sa qualcosa anche la Cooperazione italiana che ha provato invano ad allestire un parco giochi per una scuola e a impiantare nuove tende per i beduini del deserto. Tutto ciò che sa di stabilità allarma gli israeliani, che procedono in fretta a requisire e abbattere. «Non lo stesso però avviene con gli insediamenti abusivi dei coloni che mangiano il territorio», dice padre Raed. Tre mesi di blocco degli insediamenti, definizione dei confini e poi «nella vostra parte costruite quel che volete», era stata l’ultima offerta di Abu Mazen, presidente palestinese, a Netanyahu. Ma il premier israeliano ha rifiutato senza controproposte.
«Il nostro Paese ha sempre sostenuto il processo di pace anche in momenti in cui tutto sembrava fermo. E uno dei mezzi per arrivare alla pace crediamo sia il rafforzamento delle istituzioni democratiche palestinesi e della formazione della società civile. Ci vogliono tempi più lunghi, ma solo così le conquiste possono essere durature. Un rafforzamento delle istituzioni palestinesi significa anche che gli estremismi vengono progressivamente isolati e messi a tacere», commenta Davide La Cecilia, console italiano a Gerusalemme. L’Italia dà un aiuto concreto che si traduce, nel solo settore sviluppo, in un impegno di spesa di 30 milioni di euro a dono e 30 milioni a prestito. Non è poco in una terra dove non si sa bene cosa può riservare il futuro.
«Intanto, in attesa di tempi nuovi», conclude padre Neuhaus, «noi stiamo lavorando molto al nostro interno. Nella Chiesa cattolica, con i palestinesi, i migranti di rito latino, i cristiani di lingua ebraica, ci stiamo educando a conoscerci e a riconoscerci come fratelli e sorelle. Perché, in un Paese lacerato, la nostra possa essere la testimonianza che – come dice il motto del viaggio papale Ut unum sint – vivere insieme uniti si può».