Tra le diverse
rivoluzioni che ancora
attendono l’impegno
della nostra società,
risultano incompiute
quella del mercato
del lavoro femminile
e quella della
ripartizione dei compiti
tra coniugi all’interno
del nucleo familiare.
Un’attenta analisi
economica e sociale
mette in luce
le vie da percorrere
per valorizzare appieno
il ruolo delle donne, sia
in campo professionale
sia in campo domestico.
Le principali “rivoluzioni silenziose” che la società
deve fare perché ci sia una parità reale tra donne
e uomini sono: quella dell’istruzione (in Italia
quasi compiuta); quella del lavoro femminile (ancora
ampiamente irrealizzata); quella dei carichi familiari
(“tradita” dagli uomini) e quella della presenza nella
politica (forse mai veramente incominciata). Il nostro
Paese, dunque, è indietro, soprattutto se raffrontato
agli altri Paesi europei. In questo articolo, tratto dal sito
www.lavoce.info, le autrici presentano una sintesi di
quanto ampiamente illustrato nell’omonimo volume
edito in questi giorni da Il Mulino, focalizzandosi su
quanto secondo loro dovrebbe fare la politica per aiutare
a colmare la differenza. Le attinenze con le politiche
familiari sono evidenti.
La prima rivoluzione, quella dell’istruzione femminile,
è quasi pienamente compiuta: le giovani italiane sono
ormai più istruite degli uomini, anche se scelgono
spesso percorsi di studio meno remunerativi nel mercato
del lavoro. Le giovani, infatti, sembrano preferire le
discipline dell’area umanistica, caratterizzata da livelli
occupazionali e retributivi più bassi, mentre gli uomini
scelgono maggiormente le discipline dell’area scientifica
e ingegneristica, caratterizzata da livelli occupazionali
e retributivi più elevati.
La seconda rivoluzione, quella del mercato del lavoro,
resta largamente incompiuta. Il tasso di partecipazione
lavorativa delle donne italiane è sempre il più
basso d’Europa, mentre il tempo dedicato al lavoro domestico
e di cura è sempre il più alto. Tra le donne tra i
20 e i 34 anni, nel 2010, il tasso di occupazione è addirittura
sceso (al 48%, contro il 50% del 2000). Una delle
ragioni principali per la bassa partecipazione delle
donne italiane è dovuta al fatto che un quarto delle
donne occupate esce dal mercato del lavoro alla nascita
del primo figlio. Tra le giovani sono addirittura in
crescita le interruzioni imposte dal datore di lavoro (oltre
la metà del totale). A sperimentare le interruzioni
forzate del rapporto di lavoro
sono soprattutto le
giovani generazioni (il
13,1% tra le madri nate
dopo il 1973) e le donne
residenti nel Mezzogiorno.
Le interruzioni, poi, si
trasformano nella maggior
parte dei casi in uscite
prolungate dal mercato
del lavoro: solo il 40%
delle donne uscite riprende
il lavoro (il 51% al
Nord e il 23,5% al Sud).
Lontana dal compiersi
e “tradita” (dagli uomini)
è la rivoluzione all’interno
della famiglia, nella ripartizione
dei tempi e dei
compiti familiari tra uomini
e donne, così sbilanciata
da creare, vista anche la
scarsità di servizi di cura,
enormi problemi di conciliazione
tra lavoro e maternità
e impedendo la
crescita dell’occupazione
femminile.
La rivoluzione di genere
nella politica, poi, non
è mai cominciata: ancora
oggi, anche per la scarsa
presenza di donne in parlamento
(59 senatrici su
331 e 134 deputati donna
su 630), le istanze e le proposte
di legge su parità e
politiche sociali a beneficio
delle donne hanno un
cammino lento e faticoso.
Se negli ultimi anni è
mancata la volontà politica
di cambiare e rendere
più efficiente e uguale
per genere il nostro Paese,
adesso anche i più forti
vincoli finanziari della
crisi economica portano a
trascurare le donne
nell’agenda politica del
Paese. Tuttavia ci sono interventi
che sarebbero investimenti
per il futuro,
più che costi, e che potrebbero
cominciare a
cambiare il contesto in
cui le donne (e gli uomini)
vivono e lavorano.
Un primo intervento
importante sarebbe quello
di fornire alle donne incentivi
nei settori della
formazione tecnico-scientifica
(obiettivo strategico
già dell’Unione europea).
In Italia questi strumenti
sono praticamente
assenti. Un secondo importante
intervento sarebbe
il ripristino della Legge
188/2007 contro le dimissioni
in bianco. Si tratta
di una norma approvata
da una maggioranza trasversale
dal secondo Governo
Prodi e cancellata
dall’ex ministro Sacconi,
che prevedeva l’uso di moduli
numerati validi al
massimo 15 giorni per
presentare dimissioni volontarie.
Un intervento a
costo zero, che consentirebbe
di combattere questa
pratica discriminatoria
ottenendo maggiore
occupazione femminile e
favorendo la fecondità.
Occorre poi introdurre
incentivi a una più equa divisione
del lavoro domestico
tra uomini e donne. Interventi
cruciali in questa
direzione riguardano i
congedi parentali. Nell’ottobre
del 2010 il Parlamento
europeo ha approvato
una legge per proteggere
le donne dal licenziamento
a causa della maternità
e garantire anche ai padri
almeno due settimane di
congedo obbligatorio (remunerato).
Si possono anche
estendere i congedi ai
padri e pensare a congedi
part time per ambedue i
genitori (sull’esempio della
Svezia) in modo da ridurre
l’impatto negativo
sulla carriera e sui salari
delle madri.
Si tratta, di fatto, di ridistribuire
su ambedue i genitori
i costi dei congedi
parentali. Questo tipo di
iniziativa dovrebbe essere
sostenuta da campagne di
sensibilizzazione per i padri
e le imprese. Il congedo
ai padri aiuterebbe,
inoltre, a promuovere la
cultura della condivisione
della cura dei figli, delle
responsabilità e anche dei
diritti tra madri e padri.
Per le donne che lavorano
è poi necessario garantire
un maggior sviluppo
e monitoraggio delle politiche
di conciliazione sul
posto di lavoro, anche in
applicazione dell’art. 9
della Legge 53 del 2000,
che promuove e finanzia
la messa in atto di buone
prassi di conciliazione da
parte delle imprese.
Infine, è necessario aumentare
la disponibilità e
ridurre il costo per le famiglie
dei servizi di cura
per i bambini piccoli. Dopo
l’intervento “Piano
per i nidi 2007” del ministro
Bindi, ben poco è stato
fatto. In Italia, l’investimento
pubblico per i
bambini nella prima fase
del ciclo di vita è limitato
sia rispetto agli altri Paesi
europei, sia se si confrontano
le spese pubbliche
destinate a bambini di altre
classi di età. La spesa
media per i bambini in
età tra 0 e 2 anni è infatti
del 25% inferiore a quella
media dei Paesi Ocse, e
pari alla metà della spesa
media destinata alle classi
di età 6-11 anni e 12-16.
Di conseguenza, l’offerta
di nidi pubblici in Italia
oggi è tra le più basse
d’Europa e solo il 12%
dei bambini sotto i tre anni
ha un posto al nido
pubblico, contro i l
35-40% della Francia e il
55-70% dei Paesi nordici.
Il legame tra offerta di nidi,
lavoro delle madri e risultati
scolastici dei bambini
è fondamentale.
Non solo avere la madre
che lavora non pregiudica
lo sviluppo delle capacità
cognitive e comportamentali,
come invece erroneamente
spesso si è ritenuto,
specie se il minor
tempo che la madre trascorre
con il figlio è compensato
dal tempo di personale
qualificato in strutture
di elevata qualità, i nidi
pubblici appunto. Anzi,
quanto minore è il livello
di istruzione e di reddito
dei genitori, quanto
più l’asilo nido assume il
ruolo di investimento precoce
nei bambini.
Se si riconosce il ruolo
dei nidi nel processo di accumulazione
di capitale,
allora la proposta è quella
di inserire il nido nel sistema
dell’istruzione scolastica
pubblica. Costruire
nuovi nidi pubblici è indubbiamente
costoso, ma
essi sono meritevoli di spesa
pubblica come il resto
dell’istruzione scolastica.
E poi, un maggior numero
di asili nido significherebbe
una maggiore
occupazione (femminile)
sia per gli effetti diretti (le
educatrici assunte) sia
per gli effetti indiretti
(più donne con figli potrebbero
lavorare). È credibile
quindi che, almeno
in parte, il costo dei nuovi
nidi potrebbe essere sostenuto
dagli introiti derivanti
dalle imposte sui redditi
delle nuove assunte.