In un'intervista di qualche anno fa Vasco Rossi parlando degli esordi della sua carriera aveva detto: «Ero un irrisolto e pensavo che la mia musica fosse per gli irrisolti come me, quindi di nicchia. Forse ho sbagliato previsione». Sì, Vasco si è sbagliato, perché la sua musica non è affatto di nicchia. E se dopo oltre quarant'anni di carriera riesce a riempire San Siro, il tempio del rock italiano, per sei sold out consecutivi, significa che di irrisolti, in Italia, ce ne sono diverse centinaia di migliaia. Anche perché, lo diciamo tra le righe, “irrisolto” è anche una definizione interessante e intrigante dell'umano. Il tour VascoNonStop 2019 è già un record con oltre trecentotrentamila biglietti venduti in una sola città da un singolo artista. «Neppure Vasco Rossi aveva mai osato tanto», ha scherzato alla vigilia dei sei concerti (ma se ne facesse venti consecutivi il risultato non cambierebbe) aperti sabato scorso con quasi sessantamila fan di tutte le età: anziani e adulti, giovani e adolescenti, molte famiglie.

Vasco Rossi è un catalizzatore di emozioni, ma soprattutto in tempi di divisioni, odio e rancore diffusi mette insieme tre generazioni di italiani che semplicemente vogliono cantare, divertirsi insieme, rivivere l'avventura della propria vita, tra ricordi e rimpianti. E se certi eccessi del rock sono già stati ampiamente archiviati e ridotti a convenzione, anche Vasco Rossi dai tempi di Vita spericolata, canzone-manifesto degli anni Ottanta, ha cambiato pelle e si è reinventato anche lui. A San Siro, su un palco largo 100 metri e alto 33, avveniristico quanto basta, con nove maxischermi ad alta risoluzione, si comincia con Qui si fa la storia: «Quello che tu cerchi tu forse non lo sai. Quello che tu cerchi è già qui. La disperazione è già qui, c'è solo un modo che io conosco, la disperazione la soffochi con me». Poi ecco La verità, uno dei suoi ultimi singoli, con la sua carica esistenziale, quasi un inno per chi è in ricerca: «La verità arriva quando vuole, la verità non ha bisogno mai di scuse, disturba sempre un po’ qualcosa». Ma anche un colpo di maglio, questa canzone, all’intossicazione attuale: «Oggi viviamo nell’epoca della post verità», ha detto Vasco alla vigilia, «una bugia ripetuta più volte diventa vera e i politici in Tv dicono balle con una tranquillità di cui non mi capacito. Chi la spara più grossa ha ragione».



«Portatemi Dio, gli voglio parlare»
Tocca a un classico, Mi si escludeva. Non si direbbe che questa canzone ha quasi venticinque anni con la sua carica lungimirante, capace di fotografare l’oggi come un’istantanea. Si parla di mancata inclusione, di tirare su muri, di soluzioni disumane adottate per ghettizzare. Dopo il primo interludio tra punk, elettronica e art pop, dove la scena se la prende tutta Beatrice Antolini, polistrumentista nonché compositrice e cantante di gran talento, torna Vasco con uno dei brani più attesi, Portatemi Dio. È il rocker che come il Giobbe biblico non s’accontenta delle risposte preconfezionate o perbeniste: «Portatemi Dio lo voglio vedere, portatemi Dio gli devo parlare, gli voglio raccontare, di una vita che ho vissuto, e che non ho capito, a cosa è servito, che cos'è cambiato». È una staffilata di suoni arrabbiati, energici, perentori, di quelli che impediscono ai sessantamila di San Siro di stare fermi o, peggio, disincantati.

L'esordio a San Siro ventinove anni fa (come le canzoni in scaletta)
Ventinove canzoni, come gli anni dalla “prima” a San Siro. L’esordio qui, infatti, risale al 1990, l’anno della riunificazione delle due Germanie, della Prima guerra del Golfo e della morte di Sandro Pertini, Aldo Fabrizi e Greta Garbo. Un’altra era. È cambiato tutto, non la capacità del rocker di Zocca di mettere insieme i suoi fan arrivati da ogni parte d’Italia. Si prosegue con i classici: Buoni o Cattivi, La verità e Quante volte. Ancora un tuffo negli anni Ottanta, decennio apocalittico, cioè rivelatore, completamente riarrangiati come Portatemi Dio, Ti taglio la gola, Domenica lunatica. E ancora: Se è vero o no che non ha quasi mai cantato in concerto, la bellissima Vivere fino a Siamo solo noi che ieri (1981) era la rivendicazione di una diversità arrabbiata in nome degli eccessi e oggi, a giudicare da Vasco che sui maxischermi marcia compatto con i suoi, è la riaffermazione di un senso di comunità che non prevede mezze misure. Mai consolatorio il rocker di Zocca, semmai sincero. Piace proprio per questo, forse. E le note di Sally confermano: «Perché la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia». Altra espressione buona per cominciare un corso di filosofia esistenzialista. Si finisce come al solito, con Albachiara, che quest’anno compie quarant’anni esatti, e che non ha bisogno neanche di Vasco per cominciare perché ci pensano i sessantamila di San Siro nel tripudio di luci e fuochi d'artificio che illuminano a giorno il Meazza.
Proviamo a scacciare paura e tristezza
«Spinoza diceva che il potere vuole che il popolo sia sempre triste», aveva detto al Corriere della Sera alla vigilia dell’esordio, «Io aggiungo che oggi il potere lo vuole anche impaurito, il popolo. Bene, con il nostro spettacolo proviamo, almeno per una sera, a cacciare questa tristezza e questa paura». Missione compiuta. Nel Paese «disilluso, insicuro e arrabbiato» (gli aggettivi sono del Censis), dove la politica non regala sogni e le leadership si fanno e si disfano nel giro di pochi mesi, restano le rockstar come Vasco a unire le generazioni e le classi sociali e culturali in maniera trasversale. Scusate se è poco.