Luogo di plurisecolare memoria, nonché di una qualche opacità delle commesse, sinonimo di romanità, e di un cantiere infinito, la Fabbrica di San Pietro è stata commissariata da papa Francesco ad appena un mese dall’approvazione di un nuovo Codice vaticano degli appalti, e mentre la Magistratura dello Stato pontificio indaga su alcuni appalti fuori dimensione.
«A seguito della recente promulgazione del Motu Proprio “Sulla trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano”», ha reso noto la Sala stampa vaticana, «il Santo Padre, in data 29 giugno corrente, ha nominato Commissario Straordinario per la Fabbrica di San Pietro il Nunzio Apostolico Sua eccellenza monsingor Mario Giordana, affidandogli l’incarico di aggiornare gli Statuti, fare chiarezza sull’amministrazione e riorganizzare gli uffici amministrativo e tecnico della Fabbrica. In questo delicato compito il Commissario sarà coadiuvato da una commissione».
Creata nel 1523 da papa Clemente VII, la Reverenda Fabrica Sancti Petri – questo il nome latino –era inizialmente una commissione di sessanta periti con il compito di curare la costruzione e l’amministrazione della Basilica. Secoli dopo, con la Costituzione Apostolica Pastor Bonus del 1988, papa Giovanni Paolo II stabilì che «la Fabbrica di San Pietro secondo le proprie leggi continuerà ad occuparsi di tutto quanto riguarda la Basilica del Principe degli Apostoli sia per la conservazione e il decoro dell’edificio sia per la disciplina interna dei custodi e dei pellegrini che accedono per visitare il tempio». Guidata dal cardinale Angelo Comastri, arciprete della basilica, e dal vescovo delegato Vittorio Lanzani, la fabbrica è suddivisa in diversi uffici (amministrativo, tecnico, celebrazioni liturgiche, archivio storico generale, studio del mosaico) ed impiega un centinaio di operai specializzati noti, a Roma, come «sanpietrini». Per i lavori straordinari, però, questo organismo ricorre ad appalti esterni. Centro della cattolicità, oltre che patrimonio dell’Unesco, San Pietro, con la sottostante necropoli vaticana, ha un flusso di visitatori che supera, in tempi normali, le 20mila persone al giorno. E tra l’organizzazione e la manutenzione, la pulizia e il restauro, il lavoro non manca mai. Gestito, secondo gli inquirenti vaticani, con qualche leggerezza, se il Pontefice argentino ha deciso di commissariare la fabbrica. Una scelta, precisa infatti la nota vaticana, che «segue anche una segnalazione proveniente dagli uffici del Revisore Generale, che ha portato, questa mattina, all’acquisizione di documenti e apparati elettronici presso gli uffici tecnico e amministrativo della Fabbrica di San Pietro. Quest’ultima operazione è stata autorizzata con decreto del Promotore di Giustizia del Tribunale, Gian Piero Milano, e dell’Aggiunto, Alessandro Diddi, previa informativa alla Segreteria di Stato».
Molto di più, per ora, non è dato sapere. Quel che è certo è che il Papa, successore di Pietro, ha preso questa gravosa decisione proprio il 29 giugno, festività dei santi Pietro e Paolo. E che l’ha maturata, come indica il comunicato vaticano, in seguito alla promulgazione, il primo giugno, del nuovo «codice degli appalti» vaticano. Una normativa corposa e dettagliata, che peraltro entra in vigore solo oggi, primo luglio, che ha messo fuori gioco un inveterato vizio dello Stato pontificio, il rischio di clientelismo.
Se nel corso dei decenni, infatti, non sono mancati, attorno alle finanze dello Stato Pontificio, scandali maggiori, vi è infatti una prassi, minore ma non meno pervasiva, che ha causato non pochi danni, alla credibilità nonché alle casse dello Stato pontificio. E’ la gestione informale della sua economia, dagli immobili alle assunzioni agli appalti esterni. I rapporti personali, clientelari o famigliari, che si intrecciano con le decisioni di spesa. I canali preferenziali, i piccoli privilegi aiutati da qualche conoscenza altolocata, o semplicemente ben introdotta. Un modus vivendi al quale, con il codice degli appalti, il Papa ha voluto porre termine. Come si legge nel motu proprio promulgato dal Papa il primo giugno, in particolare, «la Segreteria per l’Economia, sentito l’Ufficio del Revisore Generale, anche nel rispetto della normativa internazionale applicabile alla Santa Sede o di cui essa è parte, può adottare specifiche misure di indirizzo per combattere le frodi, il clientelismo e la corruzione e per prevenire, individuare e risolvere in modo efficace i conflitti di interesse insorti nello svolgimento delle procedure in modo da evitare qualsiasi distorsione della concorrenza e garantire la trasparenza e la parità di trattamento». Si ha conflitto d’interesse, precisa il testo in un altro passaggio, «quando il personale di un Ente o un prestatore di servizi che, anche per conto dell’Ente, interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere identificato come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di concessione». Tra i motivi di incompatibilità all’iscrizione nell’Elenco dei dipendenti e degli incaricati professionali temporanei abilitati a svolgere le funzioni di progettista e perito o membro di commissione giudicatrice, per fare ancora un esempio, c’è il fatto di essere «parente fino al quarto grado o affine fino al secondo grado di un soggetto riferibile ad un operatore economico che abbia presentato offerta».
Tutto questo non deve più accadere, nelle intenzioni del Papa e dei suoi collaboratori. Interrompendo una prassi che, in realtà, ha origini antichissime. Si racconta che quando San Pietro era in costruzione, per far passare i materiali per il cantiere alle dogane senza che essi pagassero il dazio si incideva su ogni singolo collo l'acronimo in lingua latina di A.U.FA. (Ad Usum FAbrice, destinato ad essere utilizzato nella fabbrica di San Pietro). Nella tradizione popolare romana nacque allora la forma verbale «auffa» o «a ufo», tuttora utilizzata a Roma per indicare qualcuno che vuole ottenere servigi o beni gratuitamente. Una gloriosa tradizione, a modo suo, alla quale il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo» ha deciso di porre fine.