Venezia - In
questi primi giorni della 71a
Mostra del cinema di Venezia, si sono viste altre due buone pellicole
in corsa per il Leone d'oro.
99
Homes dell'americano di origini iraniane Ramin Bahrani è la
mefistofelica storia di un giovane padre di famiglia (Andrew
Garfield) che perde la casa per colpa dei mutui subprime e della
conseguente bolla immobiliare. Per salvarsi, si metterà al servizio
dell'agente immobiliare suo aguzzino (Michael Shannon) ma la cosa non
finirà bene.
Profondo e malinconico invece è Manglehorn dell'altro
statunitense David Gordon Green. Un maturo fabbro di provincia,
solitario e cinico, è un uomo alla deriva per colpa di un amore
buttato via. Storia tutta sulle spalle di un Al Pacino istrionico e
sommesso. Un'elegia del perdente di un minimalismo perfino esibito,
ma gran prova d'attore che lo candida alla Coppa Volpi.
Il
titolo più bello, però, è passato fuori concorso. Ed è un peccato
perché tanti applausi e tante risate non si sentivano da tempo al
Lido. Dove da tempo non viene premiata una vera commedia, arte
leggera che resta sempre tra le più difficili da portare sul grande
schermo. A riuscirci stavolta è un giovanotto di 75 anni che da
tanto non si metteva dietro la cinepresa: Peter Bogdanovich,
americano figlio d'immigrati, è stato uno dei registi più originali
tra quelli che hanno segnato gli anni '80 e '90 (L'ultimo spettacolo,
Ma papà ti manda sola?, Paper Moon, Rumori fuori scena). Tuttavia,
da un paio di lustri si era rifugiato nella Tv, ritrovando il
successo in veste d'attore nel cast de I Soprano.
Una vecchia storia
in sospeso, un copione che aveva cominciato a scrivere nel '79, lo ha
spinto di nuovo alla regia ed è una vera fortuna per chi ama il
cinema: She's funny that way (Lei è buffa così com'è) non solo è
un gioiello di tecnica e di scrittura ma è anche un'esortazione
all'ottimismo, alla positività, a credere nel lato casuale eppure un
po' magico della vita. Insomma, un vero balsamo in tempi di lamenti e
piagnistei per la crisi.
La
cinepresa fin dall'inizio punta sul viso luminoso dell'attrice in
voga e lei, novella pretty woman (una Imogen Poots deliziosa),
racconta senza pudori né malizie come da giovane escort piena di
sogni si sia trasformata in star di Hollywood. La disincantata
intervistatrice stenta a credere alle sue orecchie, ma la faccenda è
andata proprio così. È l'inizio di una pochade newyorkese piena di
equivoci, battute, colpi di scena che si susseguono in un meccanismo
perfetto a cui è impossibile resistere.
Gli altri personaggi sono un
regista teatrale romantico e felicemente sposato, che però si
concede qualche scappatella di troppo (Owen Wilson); la di lui
ignara moglie, attrice teatrale; l'amico sceneggiatore, fidanzato
scontento di una psicanalista rompiscatole (una Jennifer Aniston
autoironica); un maturo giudice che non riesce più a far bene il suo
mestiere perché ossessionato dal ricordo della giovane escort. I
conflitti deflagrano quando la giovane si ritrova a fare un provino
per la commedia di colui che era stato suo cliente, la cui
protagonista altri non è che la moglie cornificata. Detto così
sembra banale e un po' volgare. Invece, niente di tutto questo.
Il
risultato è una commedia degli equivoci spassosissima che va ben
oltre l'ultimo Woody Allen. Non per nulla, il modello dichiarato di
Bogdanovich è un maestro come Ernst Lubitsch, dal cui film in bianco
e nero con Charles Boyer e Jennifer Jones ha rubato il tormentone
ripetuto nella pellicola. Un furto fatto con amore e dichiarato con
gratitudine sui titoli di coda, che scorrono sulle immagini in bianco
e nero originali. Un vero omaggio alla Hollywood che fu.
Peter Bogdanovich, 75 anni, è il regista della commedia "Lei è buffa così com'è"
«I Ford, gli Hawks, i Lubitsch,
i Vidor hanno gettato le basi universali del cinema», sottolinea
Bogdanovich con l'immancabile foulard al collo pure sulla spiaggia
dell'Excelsior. «Poi siamo arrivati noi, quelli della seconda
generazione: Spielberg, Coppola, Scorsese. Quando conobbi John Ford,
non feci altro che tempestarlo di domande. Mi dava del rompiscatole,
ma poi mi spiegava tutto. Noi siamo stati deludenti rispetto ai
nostri maestri. E la terza generazione lo è ancora di più».
Non
si riconosce nel cinema di oggi?
«Non
m'interessano i film dai budget enormi come Titanic. Trovo ridicoli
gli attori in calzamaglia e con le orecchie finte. E non mi piace
l'umorismo di oggi, che punta sulla volgarità delle gag fisiche
quando invece il segreto è nel ritmo, come ci ha insegnato Frank
Capra».
È
per questo che è tornato a mettersi dietro la macchina da presa?
«Non
pretendo di salvare Hollywood. Ma per un futuro migliore non mi
stanco di ripetere ai miei studenti dell'università della Carolina
che devono studiare il cinema dal 1915 al 1962. Là c'è tutto quel
che serve».
Owen
Wilson sembra il degno erede degli attori leggeri di un tempo. Anche
Woody Allen lo aveva scelto per il suo Midnight in Paris...
«Inizialmente,
avevo scritto la parte per John Ritter, ma non c'è più. È stato il
mio amico Wes Anderson a presentarmi Owen Wilson».
E
l'inglesina Imogen Poots, vera rivelazione brillante, l'aveva vista
in V per vendetta oppure in 28 settimane dopo?
«Questi
film neppure li conosco. La verità è che ci siamo fatti una
chiacchierata e dopo mezz'ora l'ho presa. È inconsapevolmente sexy».
Che
regalo le ha fatto, alla fine, Quentin Tarantino!
«Noi
due siamo amici da tanti anni. Per sei mesi mi ha fatto pure vivere
nelle sua dependance. Mi invita sempre a vedere i suoi film che, devo
dire, sono ben fatti anche se io odio la violenza al cinema. Quentin
è uno che non risponde mai al telefono, ma alla mia chiamata non ha
potuto dire di no».