Il regista Mario Martone nella biblioteca nella casa di Leopardi a Recanati. In alto: Elio Germano.
Il film italiano più atteso di questa 71a Mostra di Venezia, capace di far venire l'acquolina in bocca a critici e addetti ai lavori, è Il giovane favoloso di Mario Martone, con l'eccellente Elio Germano nei non facili panni di Giacomo Leopardi. Non nuovo ai titoli in costume (nel 2010 presentò a Venezia il risorgimentale Noi credevamo ed è un raffinato regista teatrale), Martone si considera un veterano della Mostra: «Gillo Pontecorvo m'invitò la prima volta con Morte di un matematico napoletano e vinsi il Gran Premio della giuria», ricorda. «I Vesuviani e Noi credevamo non piacquero invece ai giurati di allora, ma furono premiati dal pubblico. Son tornato perché il festival è luogo d'incontro».
D'accordo, ma perché girare un film sull'autore dell'Infinito, un poeta che più di altri sembra lontano dall'oggi?
«Al contrario, Leopardi ha molti punti in comune con la sensibilità moderna. A cominciare dal senso di straniamento dalla realtà che lo circonda. Da tempo ero sulle tracce di questa figura in perenne viaggio, uno spirito in movimento, perché per lui era il solo modo di sentirsi libero. Qualche anno fa persi un treno e, nell'attesa del successivo, entrai in libreria. Per caso, mi capitarono sotto mano le sue Operette morali. Le lessi e ne rimasi folgorato: sembravano dei testi teatrali del Novecento, così piene di echi e anticipazioni rispetto a gusti e mode dell'epoca. E' vero, Giacomo fu triste e introverso, ma capace anche di slanci e ironie».
Sappiamo dell'infelicità di Leopardi, della sua malformazione fisica, del suo pessimismo romantico. Come andare oltre la pura biografia?
«Beh, la sfida è stata renderlo un personaggio vivo, palpitante. In particolare, ho voluto raccontare il suo rapporto speciale con Napoli, di cui amava la coralità plebea, gli umori, gli odori, la presenza immanente del Vesuvio. Considerate perse le partite dell'amore e della gloria, nella mia città Leopardi decise di inebriarsi i sensi fino allo sfinimento. Ecco spiegata la sua compulsiva passione per il cibo, i dolci e i gelati che mangiava infischiandosene delle proibizioni dei medici. La sua è una grande storia di genio, sofferenza, poesia, amori e persino avventure».
Con queste stuzzicanti premesse, al mattino presto ci siamo seduti nel buio della sala veneziana quasi col timore di restare delusi. Non è stato così. Il giovane favoloso è un film affascinante, di una bellezza assolutamente fuori moda. Martone chiede allo spettatore di proiettarsi in quei primi anni dell'Ottocento in cui Giacomo bambino si forma all'austera scuola del padre, il conte Leopardi di Recanati. La ricca casa nobiliare, l'immensa biblioteca, gli studi indefessi con l'unica distrazione di sbirciare dalla finestra quella bella ragazza della casa di fronte. Il potente bisogno di esprimere in poesia i suoi sentimenti, di essere accettato e apprezzato dai grandi letterati.
E poi il fratello e la sorella amatissimi. Quel bisogno di trovare
sponda in un affetto vero, come la sincera amicizia con Ranieri che lo
accompagnerà per tutta la sua breve esistenza. I dolori alle ossa e la
malformazione alla spina dorsale, che finirà per ingobbirlo facendone
uno sgorbio dall'animo bellissimo.
Si guarda lo schermo e ci si
abbandona al flusso delle immagini come alle acque di un fiume che via
via s'ingrossa. Impossibile non parteggiare per un tipo così
controcorrente da gelare politici e letterati risorgimentali (i ribelli
di allora), che lo blandiscono perché vorrebbero il suo impegno,
dicendo: “Parlate tanto di felicità delle masse. Ma il mio piccolo
cervello non arriva a concepire come masse felici possano essere
composte da tanti individui infelici”.
Un esistenzialista ante litteram,
capace però anche d'ironie feroci. Come quando al nobile zio, che con
fare sussiegoso s'interessa alla sua salute malferma, ribatte tagliente:
“Che ci volete fare, il mio fisico è talmente debole da non riuscire
neppure a sviluppare una malattia mortale. E così mi tocca vivere”. Certo, in sala ci si è chiesti che cosa possa arrivare del film a
chi non sa quale gran poeta ed eccelso letterato fu Leopardi. Magari al
giurato straniero chiamato a scegliere il Leone d'oro.
Se difficilmente
Il giovane favoloso la spunterà, a nessuno però sarà sfuggita
l'interpretazione di Elio Germano, capace di portare sullo schermo senza
manierismi slanci e debolezze di un uomo sfaccettato. «Sono partito
accettando l'idea che lo avrei fatto male», confessa il nostro attore
più versatile e curioso, già premiato con la Palma d'oro a Cannes per La
nostra vita. «Leopardi è portatore di una tale complessità da
costringerti a violentarlo col tuo punto di vista. Più che l'attore devi
fare l'interprete. E' così tante cose che non basterebbe una serie
televisiva a puntate per spiegarlo pienamente».
A furia di leggerlo,
studiarlo, immaginarlo, se n'è fatto un'idea tutta sua: «Era uno
scienziato dei sentimenti. Ha scritto di sé, delle sue esperienze, delle
sue emozioni più di chiunque altro. Era tutto e l'esatto contrario.
Dalle sue parole scopri un personaggio freddissimo e allo stesso tempo
emotivo, violento e al contempo timido, fragile ma anche coraggioso.
Impossibile etichettarlo. Il mio, con lui, è stato un viaggio
bellissimo».