Venezia splendida, ma fragile. Sempre aggredita da “ondate” maligne che, quasi gelose della sua bellezza, ne vogliono cancellare i segni. Una volta sono le “acque alte”, che più volte l’anno la allagano, una volta le “maree” incontrollate di turisti, che sembrano dare l’ultimo assalto alle pietre della città e ai suoi abitanti, che invece a “fiumane” la stanno abbandonando. Il centro storico è ridotto a poco più di 54 mila residenti, la metà di quarant’anni fa, neanche un terzo degli anni ’60.
Anche la Chiesa di Venezia è chiamata a rispondere alle vecchie e nuove sfide che i tempi attuali presentano. E se Venezia significa San Marco, la sua piazza, ma ancor prima la sua chiesa, simbolo di questa risposta è il progetto contro le acque alte che invadono per un migliaio d’ore l’anno l’ingresso della basilica, la cui pavimentazione è la più bassa dell’intera città. Il nartece, il prezioso ingresso, e il sagrato, nel progetto presentato alcuni mesi fa dalla Procuratoria di San Marco, saranno “impermeabilizzati” con un sistema di valvole che regoleranno i canali d’uscita e i tombini dove scorre l’acqua piovana. Presto la soglia di quest’edificio sacro, unico al mondo, «prezioso reliquiario, libro di preghiera miniato in oro e alabastro», come lo descrisse lo scrittore inglese John Ruskin alla fine dell’800, non subirà più le ingiurie sempre più frequenti della marea.
Ma è il crollo demografico del centro storico che ha imposto una riflessione su tutte le chiese della città e non solo sulla basilica marciana. È di poche settimane fa un intervento del patriarca Francesco Moraglia, che in occasione dell’incontro con i Comitati privati per la salvaguardia del Centro storico ha annunciato una prossima “razionalizzazione” delle chiese aperte a scopo pastorale e liturgico: oggi troppe, evidentemente, per pochi fedeli e bisognose in alcuni casi di interventi conservativi onerosi. Nessuna “chiusura”, tuttavia, è stata ipotizzata, ma un nuovo utilizzo del monumento in modo consono alla sua sacralità. «Sarà necessario individuare gli edifici che non rispondono più ai bisogni pastorali e trovare soluzioni per rendere utili in ambito culturale e caritativo quei luoghi, senza far perdere mai la loro dimensione simbolica», ha affermato il vescovo.
«Più che di un progetto, si tratta di un processo che la Chiesa veneziana ha avviato per valorizzare questi edifici, la loro memoria, le ricchezze artistiche ivi contenute, ma non solo: si tratta di dare loro nuova vita in un contesto cambiato», spiega don Gianmatteo Caputo, architetto e direttore dell’Ufficio diocesano per i Beni culturali ecclesiastici. Così, per ora, una decina di chiese che da tempo non sono più usate per il culto, vivranno una nuova stagione, come sedi di eventi culturali, laboratori di restauro o iniziative di carità. «L’edificio non sarà un mero contenitore: il contesto architettonico detterà il nuovo utilizzo», spiega. «Niente museizzazioni. Si sfrutterà la capacità che un tempio ha di provocare esperienze spirituali, immersive, che coinvolgono tutti i sensi».
Venezia non “sfratta” né Dio, né i fedeli, come qualcuno ha scritto, semmai vuole far parlare di Dio in modo diverso navate e presbitèri. D’altra parte non è da adesso che edifici sacri qui sono diventati qualcos’altro di altrettanto nobile: come Santa Maria della Carità, che oggi custodisce gran parte delle Gallerie dell’Accademia, uno dei musei più famosi al mondo.
Basta consultare il sito dei Beni culturali del Patriarcato per trovare già sei chiese divenute sedi espositive (San Lio, San Gallo, Sant’Antonin, San Samuele, Santa Maria Maddalena e San Fantin). Quest’ultima, in restauro, sarà un modello avanzato di questa originale fruizione, con l’inserimento di un megaschermo e innovative soluzioni d’arredo e riscaldamento.
In occasione della Biennale 2017, inauguratasi nei giorni scorsi, alcune di queste chiese, ma anche la stessa basilica di San Giorgio, e quella della Salute, sono diventate “Padiglioni paralleli”, in cui lo spazio, nato per la liturgia, dialoga con opere d’arte contemporanee.
Le eccellenze della Laguna nel piatto e nel bicchiere
Un viaggio a Venezia non è solo avventura dello spirito, ma anche esperienza culinaria unica. La cucina lagunare propone una serie di piatti tipici che hanno come protagonista il pesce, ma non solo: non si può non citare il “baccalà mantecato”, squisito antipasto, servito in tutti i “bacari”, le osterie tipiche veneziane, assieme agli altri “cicheti”, stuzzichini di vario tipo, da gustarsi in piedi. I “bigoli in salsa”, a base di cipolla e acciughe, i “risi e bisi”, risotto di piselli, e la pasta con il “nero” di seppia sono tra i primi che sprigionano sapori e storia. Come secondi, il “fegato alla veneziana”, cucinato con cipolle, e le “moleche fritte” (i granchi durante la fase di muta) sono due specialità da assaggiare. Per chi ama le verdure, da provare, in stagione, le “castraure” primo germoglio del carciofo “violetto” che si coltiva nell’isola di Sant’Erasmo. Per chiudere in dolcezza: i bussolai, detti anche “buranelli”, dall’isola di Burano da cui proviene la ricetta, che sono grossi biscotti a base di burro. E i vini? Da qualche tempo in laguna è tornata ad abitare anche la vite, grazie alla coraggiosa iniziativa di alcuni imprenditori ed enologi: “Venissa” e “Orto” sono le due etichette di maggior successo.