Le paratie mobili del Mose sollevate
“Il Mose salva Venezia”, “La città all’asciutto con una marea straordinaria”, “La Basilica senz’acqua, con le nuove paratie”, per citare solo alcuni titoli di quotidiano. Sono giorni speciali per Venezia, in cui per la prima volta i suoi cittadini possono guardare alle “aque alte” con minor preoccupazione che in passato. Date da ricordare. E’ finito l’incubo delle alluvioni? La città più bella, ma più fragile del mondo sarà davvero risparmiata d’ora in poi dalla furia delle onde sollevate dalle folate di scirocco? Non sventolerà più “sul ponte bandiera bianca” come verseggiava il poeta e patriota vicentino Arnaldo Fusinato, dopo la resa di Venezia agli austriaci nel 1849? E, poi, la basilica di San Marco, simbolo millenario della città, ma anche il suo edificio più vulnerabile per la delicatezza delle sue pietre, non subirà più l’oltraggio dell’acqua salata che come un tumore che ti mangia da dentro, senza che tu te ne accorga, sfarina le colonne e mangia i preziosi mosaici?
Qualche giorno fa, a distanza di poche ore, quasi come un messaggio ripetuto per i più distratti, prima le barriere di cristallo, a nastro d’inaugurazione ancora da tagliare, hanno protetto dall’ennesima acqua alta il nartece della Basilica, l’antico atrio bizantino, che è a una quota più bassa rispetto alle navate interne, e per quasi mille ore l’anno finiva sempre allagato. Ma soprattutto, poche ore dopo, il Mose avevano messo in sicurezza la città da una marea che poteva essere devastante, con i suoi 173 centimetri registrati alla piattaforma del centro maree del Cnr, il terzo picco più alto della storia delle “aque grandi” in laguna. Stavolta l’ondata di marea è rimasta fuori della laguna, barricata dalle gialle paratie mobili.
C’è chi ha pianto di gioia e chi ha provato rabbia pensando che quanto accaduto in passato si sarebbe potuto risparmiare a Venezia e al mondo. Si fossero alzate le paratie anche quell’infausta notte del 12 novembre 2019, non sarebbe accaduto il disastro: la città messa in ginocchio da un’onda che ha sollevato sulle rive i vaporetti come fuscelli, divelto i pontili d’attracco in Canal Grande, distrutto le gondole, spiaggiandole desolatamente davanti a San Zaccaria. Se il Mose si fosse sollevato, quella notte, Venezia non avrebbe visto negli occhi l’Apocalisse, come commentò il proto della Procuratoria di San Marco in quell’occasione. Non si sollevò perché non era ancora finito. Ci sono voluti oltre trent’anni dai primi progetti, cioè una generazione di veneziani, che nel frattempo sono rimasti in meno di 50 mila. Ci sono voluti circa 6 miliardi e mezzo di euro, più di quanto si ipotizza potrebbe costare il ponte sullo Stretto di Messina, una cifra gonfiatasi a dismisura nel tempo, anche a causa delle truffe che hanno coinvolto i lavori con inchieste giudiziarie, tutt’ora in corso, su corruzioni, consulenze gonfiate e mazzette che ammontano a un miliardo di euro (sì avete capito bene: un miliardo); e poi ancora guasti e riparazioni ancor prima del primo collaudo. Perfino il Patriarca Francesco Moraglia aveva di recente stigmatizzato su questi tempi intollerabilmente eterni.
Ma, adesso, il Mose finalmente funziona. “E ci mancherebbe. Ma a che costi? E fino a quando?” si chiedono i “critici” storici delle paratie mobili. “Se avesse vinto il “partito dei No”, saremmo ancora in balia delle acque alte”, ribattono i sostenitori del Mose, in testa l’entusiasta neo-ministro delle infrastrutture Matteo Salvini. Come dire: se l’acqua è scesa, non parimenti il livello delle polemiche, anzi. Varrebbe invece la pena, dopo la legittima, unanime soddisfazione per aver finalmente visto i “masegni” della città dei dogi all’asciutto anche di fronte alla marea eccezionale della settimana scorsa, ragionare, più serenamente, ora che intanto s’è messa in sicurezza gran parte della città, su quanto potrà durare lo “scudo” del Mose davanti ai cambiamenti climatici e all’incremento in picchi e frequenza delle alte maree; e decidere cosa si debba predisporre sin d’ora per non riconsegnare Venezia alle acque. Partendo da un dato di fatto: “Il mose è un’opera del ventesimo secolo, che non risolve il problema nelle condizioni del ventunesimo secolo”, ha rimarcato il sociologo Gianfranco Bettin, oppositore delle dighe mobili da sempre. Il Mose è stato progettato per essere messo in azione solo poche volte l’anno. L’incremento della alte maree, tuttavia, sta costringendo l’innalzamento delle partoie decine di volte in pochi mesi e per periodi lunghi, con la conseguenza di mettere a repentaglio le economie portuali, con decine di navi ferme in rada, e della pesca. E, rischio non meno serio, di minare il delicato equilibrio dell’ecosistema lagunare, già stressato da altri fattori.
L’altro tema delicato riguarda gli ingenti costi di gestione: ogni sollevamento del Mose costa più o meno 200 mila euro e solo la settimana scorsa le “alzate” sono state quattro, per fronteggiare altrettante alte maree. Ma a fronte, comunque, di milioni d’euro di danni risparmiati da eventi catastrofici. E’ evidente che, pur essendo ora il Mose utilissimo, le nuove sfide poste dal cambiamento climatico ripropongono l’urgenza di altre opere, che prima che si avviasse il progetto per le dighe mobili, coi denari della Legge Speciale erano quasi di routine: la pulizia dei canali, il rinforzo delle rive e delle difese a mare, e dov’è possibile, l’innalzamento del suolo. Poi le dighe alle bocche di porto hanno dragato ogni risorsa. Nel frattempo Venezia dovrà anche risolvere l’altro “problemino” che si chiama “grandi navi” cioè lo spostamento del terminal crocieristico. Tra i prossimi passi per la messa in sicurezza di Venezia c’è l’intervento di impermeabilizzazione e innalzamento di Piazza San Marco, col sollevamento del piano di calpestio del “salotto del mondo”. Opere che a giorni partiranno ma richiederanno almeno tre anni di lavori. Salvo ritardi. Insomma, Venezia potrebbe non annegare come Atlantide, ma se accadrà, non sarà stato solo per il Mose.