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martedì 22 aprile 2025
 
Verba volant
 

«Verba volant», al Sinodo il latino è lingua morta

09/10/2014  Dante batte Cicerone. Papa Francesco ha scelto l'italiano come lingua ufficiale dei lavori

Molti indizi fanno una prova. E l’ultimo della serie è più pesante degli altri. Al Sinodo sulla famiglia in corso in Vaticano le relazioni prima e dopo la discussione, come pure il documento finale, non si tengono in latino ma in italiano, elevato al rango di lingua ufficiale da papa Francesco il quale, non a caso, ama presentarsi anzitutto come vescovo di Roma.

Di latino, al Sinodo, sono rimasti solo i nomi dei documenti: la Relatio ante e post disceptationem, che precedono e concludono il dibattito tra i padri sinodali. E la Relatio Synodi, il documento finale che sarà consegnato nelle mani del Papa al termine dei lavori.

La novità linguistica l’ha voluta proprio lui, Bergoglio, suscitando, si sussurra, un certo sollievo nei padri sinodali poco ferrati nella lingua di Cicerone che è ancora, almeno sulla carta, la lingua ufficiale della Chiesa Cattolica ed è utilizzata per i documenti più importanti, a cominciare dalle encicliche papali. Senza dimenticare che il sito ufficiale del Vaticano (vatican.va) annovera la lingua dei Romani tra le 9 ufficiali, che tra i sacri palazzi c’è un bancomat che tra le lingue a disposizione ha anche il latino. E che il profilo Twitter in latino di “Franciscus” è seguito da 286mila follower.
Il traduttore dei tweet del Pontefice è monsignor Daniel Gallagher, un latinista americano, alle prese, talvolta, con parole nuovissime ed espressioni simpatiche tipiche del modo di esprimersi di Bergoglio. Un esempio? «Non esiste un cristianesimo low cost», disse il Papa. E monsignor Gallagher tradusse così: «Nulla pretii parvi christiana reperitur religio».

Che Bergoglio non ami molto il latino lo si è visto in più occasioni. Nei viaggi internazionali, dal Brasile alla Terra Santa, ad esempio, ha optato per l’italiano (oltre alla spagnolo, la sua lingua madre).
Tutto il contrario di Benedetto XVI, ad esempio, che utilizzava il latino non solo in alcune occasioni particolarmente solenni come il discorso ai cardinali nella Sistina dopo l’elezione, ma anche nei viaggi pastorali. Successe in Benin e Camerun, due tappe del suo viaggio in Africa nel 2011.

Senza dimenticare che l’annuncio più importante del pontificato, e della storia della Chiesa tout court, Ratzinger lo diede proprio in latino: «Quapropter bene conscius ponderis huius actus plena libertate declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus Cardinalium die 19 aprilis MMV commisso renuntiare…», sussurrò davanti ai cardinali attoniti la mattina dell’11 febbraio 2013.
La cronista dell’Ansa, ferrata in materia, capì al volo. E fece uno scoop mondiale dando la notizia prima di tutti gli altri.

Qualche mese prima di congedarsi dal Soglio, Ratzinger per ridare nuovo slancio al latino istituì con un Motu proprio la Pontificia Accademia di Latinità affidandola a Ivano Dionigi, latinista di fama e attuale rettore dell’Università di Bologna. «C’è la consapevolezza», spiegò Dionigi in un’intervista, «che il latino nella storia è stato la lingua dell’imperium, dello studium e dell’ecclesia. Questa lingua ha in sé tre proprietà che trovano corrispondenza nelle caratteristiche della fede: l’eredità, l’universalità e l’immutabilità. È la lingua dei teologi, del diritto canonico, dei concili, della liturgia».

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