Bruxelles, Belgio
Se preso sul serio, il Consiglio europeo del 28-29 giugno potrebbe rappresentare per i Paesi membri un’ottima occasione per fare chiarezza. Non tanto e non solo sulla politica migratoria dell’Unione europea – che ancora non esiste –, ma più complessivamente sulla loro intenzione di restare, insieme, nell’Ue. Il summit del fine settimana a Bruxelles riporta all’ordine del giorno una serie di macro-argomenti: migrazione, sicurezza e difesa, economia e governance, crescita e lavoro, bilancio pluriennale, Europa digitale, politica estera, rapporti con i Balcani, Brexit. Di tutto, di più, secondo un vecchio slogan. Ma è piuttosto chiaro, dalle premesse, che sul primo e più importante tema in discussione, relativo ai diversi aspetti delle migrazioni sarà ben difficile trovare un accordo. E il pre-vertice di domenica 24 giugno lo ha confermato.
Le posizioni che confliggono tra loro riguardano infatti i Paesi più esposti – ovvero i mediterranei, con in testa l’Italia – con quelli meno o per nulla segnati dalle pressioni migratorie, fra cui i quattro di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia). Poi ci sono i Paesi “responsabili”, quelli che hanno in parte aperto le porte ai disperati che scappano dalle guerre e dalla fame: Germania e Svezia ne sono l’esempio. Quindi si prosegue con gli ultimi arrivati della solidarietà (la stessa Spagna), i predicatori (la Francia), gli oltranzisti delle frontiere chiuse (Austria e Danimarca per fare due nomi). Nonché gli Stati che stanno a guardare, senza misurarsi con la responsabilità dell’accoglienza: i Baltici, l’Irlanda, i Paesi Bassi, la Romania, la Slovenia…
Sempre per sviare il discorso dalla creazione di una vera politica migratoria comune, finora resa impossibile proprio dagli interessi confliggenti dei diversi Paesi, i vari leader e governi nazionali alla vigilia di questo nuovo vertice hanno puntato i riflettori ora sull’apertura o meno dei porti, ora sulla chiusura delle frontiere, ora sulla riforma delle regole di Dublino e del sistema d’asilo, ora sugli hotspot in Africa. E, ancora, sui “contratti bilaterali” con i Paesi di origine e di transito, su Schengen e i “movimenti secondari”, su corridoi preferenziali per la migrazione “legale” oppure su un “piano Marshall” per lo sviluppo dell’Africa.
Parole fondate, ma pur sempre e solo parole. Cui non corrispondono azioni politiche risolutive. Tanto che le reiterate prese di posizione del Parlamento e della Commissione Ue per costruire, faticosamente e progressivamente, una risposta europea a un problema europeo – l’immigrazione appunto – sono state ogni volta ignorate o smontate pezzo per pezzo dagli stessi leader nazionali. I quali, sul filo del nazionalismo e del populismo, hanno semmai fomentato paure e lucrato successi elettorali dalle migrazioni anziché provare ad affrontare seriamente la questione migratoria.
Così l’imminente Consiglio europeo con la sua ambiziosa agenda, rischia di incagliarsi a partire dalle migrazioni. Per poi quasi certamente produrre una serie di ripicche su tutti gli altri temi, dalla difesa al bilancio, dal digitale alla governance economica. Perché allora non chiedere ai Capi di Stato e di governo che confluiranno a Bruxelles di dichiarare esplicitamente se e quanto credono all’Europa unita? Probabilmente c’è ancora chi – politici e cittadini/elettori – ritiene che di fronte alla globalizzazione e a competitori mondiali del calibro di Usa, Cina, India o Russia, ogni Paese possa fare da sé, senza bisogno della solidarietà e delle spalle larghe dell’Europa. Una cosa è certa: i cittadini europei attendo risultati, quali saranno le risposte dei leader che gli stessi cittadini si sono scelti?
Gianni Borsa