«Buongiorno professore,
vorrei
dare la tesi di
laurea con lei
sul tema del tifo
estremo. Sono
un ultrà». Due
anni fa nella casella
di posta elettronica di Gherardo Ortalli, docente di Antropologia presso
il dipartimento di Studi umanistici
all’Università veneziana di Ca’ Foscari,
compare una e-mail con tale richiesta.
«La lettera mi colpì subito anche per il
buon italiano, insolito nei nostri atenei
», commenta il professore.
I due s’incontrano più volte. Niente
tesi, ma inizia tra loro un dialogo
sull’argomento che ora diventerà un
saggio della Fondazione Benetton
Studi e Ricerche, della quale Ortalli è
collaboratore come esperto di Storia
del gioco e del tempo libero.
«Come sono diventato un ultrà?
Da ragazzo mio padre mi portava allo
stadio: entrare nell’arena, vedere i
giocatori dell’album delle figurine dal
vivo, mi toglieva il fiato. Poi guardavo
dai distinti la curva e ne ero affascinato.
Cantavano, davano spettacolo. Così,
a 14 anni, chiesi a mio padre di andare in curva anch’io con i miei amici».
Esordisce così “Mario” al nostro incontro,
in presenza del professore che
precisa: «Ovviamente siamo rimasti
in totale disaccordo su quasi tutto. Ma
quest’esperienza mi ha provocato allo
studio del fenomeno e ho capito che
c’è un’assoluta mancanza di confronto
tra studiosi e protagonisti. I sociologi
studiano il fenomeno, ma “in laboratorio”;
gli ultrà scrivono libri e riempiono
il Web. È folle la mentalità degli
ultrà. Ma non è sensato studiarli senza
incontrarli».
Ventottenne, di buona famiglia,
in bacheca una laurea triennale in
Filosofia, laureando in specialistica,
un part-time lavorativo in un’associazione
di volontariato, un passato di
calciatore nel ruolo di “medianaccio”,
come ama dire, vive in un capoluogo
del Nordest italiano e tifa per la squadra
della sua città, di cui è uno dei capi
ultrà. Insomma non è un bullo di periferia
o un violento, anche se pende
su di lui ancora per un anno un Daspo,
cioè il divieto d’accesso agli stadi con
l’obbligo di firma, per scaramucce con
gli ultrà avversari, e una condanna in
primo grado per oltraggio. Pentito?
«No. Rifarei tutto, magari in modo più
furbo. Eviterei solo qualche sbronza
pericolosa».
Nel gruppo era il lancia-cori, cioè
quello che dando le spalle al campo dirigeva
canti e sfottò, che peraltro spesso
compone, data la sua abilità a scrivere
in rima. «All’inizio era l’occasione
per fumare la sigaretta, bersi una birra,
e poi c’era il coinvolgimento nei cori.
Era un modo di vivere il gruppo, da
adolescenti, con qualche trasgressione
».
Mario e i suoi amici ci prendono
gusto e già a 18 anni formavano nella
curva un gruppo ben definito.
Ora, dopo dieci anni, sono nel direttivo
della curva. La specialità della
casa oltre ai cori? «Da ragazzini, ci si
divertiva, dopo un gol, a buttar giù
la gente, creando una scenografica
frana umana. Talvolta ci si ammaccava
un po’, ma dalla curva opposta era
uno spettacolo da vedere. Ora si hanno
più responsabilità: organizzare coreografie,
trasferte, eccetera», racconta.
Come la mettiamo con le accuse di
razzismo? «Nel nostro gruppo non ci
sono razzisti. Il campanilismo è il sale
della partita, il razzismo un’idiozia
pura». Poi ammette: «I cori peggiori
sono per le forze dell’ordine, perché
sono il nemico numero uno. Avrebbero
tutti gli strumenti per controllare lo
stadio e prevenire la violenza, e invece…
Non mi sento protetto dalla polizia.
E c’è un’escalation in Europa nella
dotazione alle polizie delle cosiddette
“armi non letali”, che sono in realtà
assai pericolose. Si pensa solo a reprimere
il fenomeno ultrà inasprendo le
pene, ma intanto, non per colpa nostra,
gli stadi, sempre più fatiscenti, si vuotano
», dichiara.
L’azionariato popolare
potrebbe essere una soluzione, dice,
con un maggior coinvolgimento dei
tifosi. «Non sono contro l’assenza di
regole, ma credo che reprimere e basta
non serva: più trasformi lo stadio
in gabbia, più l’uomo tenta di scapparsene
fuori».
E tu, mai portato un coltello allo
stadio? «No, mai. Né io, né alcuno del
mio gruppo. Ultrà è tutt’altro: è sfida,
gara, componente ludica».
Passiamo alla politica. «Mi appassiona,
ma sono contro i partiti. E vedo
una deriva di destra nella maggior
parte dei gruppi ultrà in Italia. Come
ultrà facciamo politica indirettamente
perché diamo voce a un contro-sistema,
che si batte, ad esempio, contro
leggi liberticide».
E magari la stampa vi massacra
parlando di voi solo quando distruggete
stadi e accoltellate, no? «È così.
Presentano solo le degenerazioni».
Non avevamo dubbi.
Ma avrà un futuro il fenomeno ultrà?
«Lo vorrei, per mantenere viva
una tradizione dentro una modernità
in cui non ci riconosciamo. Ma poi
penso che eventi come l’uccisione di
Ciro Esposito non possano che portarci
dritti al suicidio».
Torniamo al personale. Si resta
ultrà a vita? «Come spirito sì, magari
non come attivisti: è giusto passare
il testimone a uno più giovane. Io ho
provato a dare le dimissioni, anche
perché l’attivista opera tutta la settimana
e io non posso più farlo, sebbene
non passa giorno che non dedichi un
po’ di tempo a questa passione».
Ma un domani porteresti tuo figlio
in curva? «Sì, però non certo a giocare
al calcio».
Prima di chiudere, ci fai una rima
al volo? «Stampa, Tv e società, vergogna
di questa civiltà». Così, tanto per
gradire.