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«Vi racconto la mia vita da tifoso ultrà»

27/04/2015  Un ventottenne veneto a cofronto con un docente di antropologia. «La stampa ci perseguita», dice lui. E il professore: «Non possiamo studiarli senza conoscerli».

«Buongiorno professore, vorrei dare la tesi di laurea con lei sul tema del tifo estremo. Sono un ultrà». Due anni fa nella casella di posta elettronica di Gherardo Ortalli, docente di Antropologia presso il dipartimento di Studi umanistici all’Università veneziana di Ca’ Foscari, compare una e-mail con tale richiesta. «La lettera mi colpì subito anche per il buon italiano, insolito nei nostri atenei », commenta il professore.

I due s’incontrano più volte. Niente tesi, ma inizia tra loro un dialogo sull’argomento che ora diventerà un saggio della Fondazione Benetton Studi e Ricerche, della quale Ortalli è collaboratore come esperto di Storia del gioco e del tempo libero.
«Come sono diventato un ultrà? Da ragazzo mio padre mi portava allo stadio: entrare nell’arena, vedere i giocatori dell’album delle figurine dal vivo, mi toglieva il fiato. Poi guardavo dai distinti la curva e ne ero affascinato. Cantavano, davano spettacolo. Così, a 14 anni, chiesi a mio padre di andare in curva anch’io con i miei amici». Esordisce così “Mario” al nostro incontro, in presenza del professore che precisa: «Ovviamente siamo rimasti in totale disaccordo su quasi tutto. Ma quest’esperienza mi ha provocato allo studio del fenomeno e ho capito che c’è un’assoluta mancanza di confronto tra studiosi e protagonisti. I sociologi studiano il fenomeno, ma “in laboratorio”; gli ultrà scrivono libri e riempiono il Web. È folle la mentalità degli ultrà. Ma non è sensato studiarli senza incontrarli». Ventottenne, di buona famiglia, in bacheca una laurea triennale in Filosofia, laureando in specialistica, un part-time lavorativo in un’associazione di volontariato, un passato di calciatore nel ruolo di “medianaccio”, come ama dire, vive in un capoluogo del Nordest italiano e tifa per la squadra della sua città, di cui è uno dei capi ultrà. Insomma non è un bullo di periferia o un violento, anche se pende su di lui ancora per un anno un Daspo, cioè il divieto d’accesso agli stadi con l’obbligo di firma, per scaramucce con gli ultrà avversari, e una condanna in primo grado per oltraggio. Pentito? «No. Rifarei tutto, magari in modo più furbo. Eviterei solo qualche sbronza pericolosa».

Nel gruppo era il lancia-cori, cioè quello che dando le spalle al campo dirigeva canti e sfottò, che peraltro spesso compone, data la sua abilità a scrivere in rima. «All’inizio era l’occasione per fumare la sigaretta, bersi una birra, e poi c’era il coinvolgimento nei cori. Era un modo di vivere il gruppo, da adolescenti, con qualche trasgressione ».

Mario e i suoi amici ci prendono gusto e già a 18 anni formavano nella curva un gruppo ben definito. Ora, dopo dieci anni, sono nel direttivo della curva. La specialità della casa oltre ai cori? «Da ragazzini, ci si divertiva, dopo un gol, a buttar giù la gente, creando una scenografica frana umana. Talvolta ci si ammaccava un po’, ma dalla curva opposta era uno spettacolo da vedere. Ora si hanno più responsabilità: organizzare coreografie, trasferte, eccetera», racconta. Come la mettiamo con le accuse di razzismo? «Nel nostro gruppo non ci sono razzisti. Il campanilismo è il sale della partita, il razzismo un’idiozia pura». Poi ammette: «I cori peggiori sono per le forze dell’ordine, perché sono il nemico numero uno. Avrebbero tutti gli strumenti per controllare lo stadio e prevenire la violenza, e invece… Non mi sento protetto dalla polizia. E c’è un’escalation in Europa nella dotazione alle polizie delle cosiddette “armi non letali”, che sono in realtà assai pericolose. Si pensa solo a reprimere il fenomeno ultrà inasprendo le pene, ma intanto, non per colpa nostra, gli stadi, sempre più fatiscenti, si vuotano », dichiara.

L’azionariato popolare potrebbe essere una soluzione, dice, con un maggior coinvolgimento dei tifosi. «Non sono contro l’assenza di regole, ma credo che reprimere e basta non serva: più trasformi lo stadio in gabbia, più l’uomo tenta di scapparsene fuori». E tu, mai portato un coltello allo stadio? «No, mai. Né io, né alcuno del mio gruppo. Ultrà è tutt’altro: è sfida, gara, componente ludica». Passiamo alla politica. «Mi appassiona, ma sono contro i partiti. E vedo una deriva di destra nella maggior parte dei gruppi ultrà in Italia. Come ultrà facciamo politica indirettamente perché diamo voce a un contro-sistema, che si batte, ad esempio, contro leggi liberticide».

E magari la stampa vi massacra parlando di voi solo quando distruggete stadi e accoltellate, no? «È così. Presentano solo le degenerazioni». Non avevamo dubbi. Ma avrà un futuro il fenomeno ultrà? «Lo vorrei, per mantenere viva una tradizione dentro una modernità in cui non ci riconosciamo. Ma poi penso che eventi come l’uccisione di Ciro Esposito non possano che portarci dritti al suicidio».

Torniamo al personale. Si resta ultrà a vita? «Come spirito sì, magari non come attivisti: è giusto passare il testimone a uno più giovane. Io ho provato a dare le dimissioni, anche perché l’attivista opera tutta la settimana e io non posso più farlo, sebbene non passa giorno che non dedichi un po’ di tempo a questa passione». Ma un domani porteresti tuo figlio in curva? «Sì, però non certo a giocare al calcio». Prima di chiudere, ci fai una rima al volo? «Stampa, Tv e società, vergogna di questa civiltà». Così, tanto per gradire.

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