Guardo Vincent Lambert, nel letto dell’ospedale di Reims, dove un incidente automobilistico lo ha confinato otto anni fa e dove era iniziato il conto alla rovescia che lo porterà a morire, poi per fortuna sospeso per decisione dei giudici dopo l’ennesimo ricorso dei familiari. Tetraplegico, in stato vegetativo, senza alcuna possibilità di miglioramento per danni cerebrali irreversibili, i medici avevano ottenuto, consenziente la moglie e alcuni familiari, di poter staccare le macchine che lo tenevano in vita, con l’autorizzazione del Consiglio di Stato francese e della Corte di Strasburgo che hanno accolto la loro richiesta.
Guardo i genitori di Vincent, che hanno ricorso contro questa decisione con tutte le loro forze, (ricorso per fortuna accolto) perché quel loro sfortunato figlio, è una persona viva, anche se in una condizione di grave disabilità. Non è “in stato vegetativo, ma di coscienza minima ”, insiste la madre che in tutti questi anni gli è stata accanto, l’ha abbracciato mille volte, ha avvertito impercettibili vibrazioni nel suo corpo, ha visto lacrime scendere dai suoi occhi. E ora piange e denuncia: “Non possono ucciderlo, quando andavamo da lui, dimostrava di riconoscerci, muoveva lo sguardo e la testa, io gli parlavo e lo rassicuravo che non lo avremmo mai abbandonato”.
C’è tanto dolore attorno a questo ex infermiere di quarantadue anni, divenuto in Francia il simbolo di un acceso dibattito sul fine vita. C’è la sofferenza di chi pensa di fare il bene del proprio familiare, ponendo fine al suo dramma, perché si tratta comunque di una decisione dolorosa. “Non c’è alcun sollievo, non c’è gioia da esprimere”, ha detto la moglie Rachel di fronte alla vittoria ottenuta . C’è la sofferenza di genitori, che vogliono salvarlo da una morte programmata che gli è stata comunicata via email e che ritengono ingiusta, lo strazio di una madre che per anni ha lottato per difendere la vita che aveva dato un giorno al figlio.
C’è il disagio pesante di medici che, prima di iniziare la professione fanno un giuramento, quello di Ippocrate, assumendosi l’impegno di difendere sempre la vita del paziente e di non dargli mai la morte, mentre nella sanità disumanizzata di oggi, è difficile rimanere fedeli a quel giuramento.
Sono scenari, situazioni, sofferenze e contraddizioni che ho vissuto sulla mia pelle nei dodici anni della malattia di mio marito, reso tetraplegico dalla sindrome di Locked-in, nutrito e idratato dalle macchine, tracheotomizzato, soltanto il battito delle ciglia per comunicare, la sua mente rimasta lucida nel corpo amputato.
Quando è arrivata la diagnosi definitiva che lo condannava, senza nessuna possibilità di miglioramento, a essere una “farfalla chiusa in uno scafandro”, come si definì il giornalista francese Jean Dominique Bauby, colpito dalla stessa Sindrome, ho iniziato un viaggio che mi ha condotta in un territorio sconosciuto, abitato da una popolazione sommersa e dimenticata, che si è rivelato come la cartina di tornasole di una società e di una cultura che scaricano, sempre con maggior determinazione, le persone, colpite da gravi disabilità, nel reparto “merci avariate” a perdere, da eliminare.
Come sta accadendo attorno a Vincent Lambert, c’era chi auspicava di “staccare la spina” per il bene di mio marito, c’eravamo noi familiari, smarriti di fronte ad un evento che aveva capovolto le nostre esistenze, a cominciare dalla mia. Un giorno la voce di una bambina, una nipotina di otto anni, è arrivata come una epifania, una rivelazione che mi ha inchiodata ad una irrefutabile realtà: “Il nonno, anche se non parla, è vivo, il nonno c’è” mi ha detto, a consolazione della mia tristezza e le mie lacrime. Ho risentito l’eco di quelle parole che furono per me determinanti più di ogni altro ragionamento, in quelle della madre di Vincent Lambert, che si rifiuta di considerare suo figlio “un vegetale” , e lo difende come essere vivente, anche se privato della vita di un tempo.
A una persona “viva”, nessuno ha il diritto di sottrarre il diritto ala vita, anche se non è più in grado di manifestarla in tutta la sua pienezza e integrità. Lo conferma la Dichiarazione universale dei diritti umani, lo asserisce la nostra Costituzione, nell’articolo 3 : “Ogni individuo ha diritto alla vita , alla libertà ed alla sicurezza delle propria persona”. Lo avvertiamo dentro di noi attraverso quell’istinto naturale che ci spinge a compiere una serie di atti utili alla conservazione e alla creazione.
Ma l’esperienza che ho vissuto, scegliendo non soltanto di rispettare il diritto alla vita di mio marito, ma di abitarla , di ascoltarla , nel silenzio di una comunicazione che passava attraverso le emozioni corporee, più eloquenti spesso delle parole, ha capovolto completamente la mia esistenza , riorganizzandola attorno a valori e significati che abbiamo perso di vista.
A cominciare dall’amore gratuito, fatto di rispetto per la dignità delle persone, di un ascolto umile e disponibile ad accogliere una diversità che fa parte del mistero della vita, come la luce fa parte del buio e viceversa, dall’importanza fondamentale di una fraternità che è condivisione del destino degli altri, dalla precedenza assoluta dell’essenziale nei confronti del superfluo, dal silenzio che ci permette di riappropriarci di un rapporto libero e profondo con noi stessi e con il mondo esterno in una relazione umana e quotidiana con gli altri da ristabilire con urgenza.
E’ stato come scoprire un “nuovo mondo”, che fa la differenza con quello che la nostra società sta vivendo in una sottrazione continua di valori umani, di significati che vanno oltre le apparenze, che ha fatto della superficialità e del consumo incontrollato di tutto e di tutti, lo stile del proprio agire, nella illusione di una onnipotenza ogni giorno sconfessata dai fatti. Un mondo “diverso”, inesplorato, che ci consegna, da coltivare e custodire, l’Oltre come presente da vivere in quella pienezza di vita che lo anticipa, perché è una vita vera, indistruttibile, eterna. Come il Vangelo ci insegna, come l’intelligenza del cuore e della mente conferma.
Sono proprio loro, le pietre scartate, le migliaia e migliaia di Vincent Lambert , di bambini , uomini e donne , chiusi negli scafandri di malattie e di disabilità, che per i conteggi dissennati del mondo attuale sono solo numeri o cartelle cliniche da cancellare, a spalancare le porte di questo “nuovo mondo” . Sono loro a offrirci un’opportunità perché l’umanità ritrovi se stessa e arresti la corsa verso il nulla del nostro pianeta, che ci sta mandando segnali preoccupanti.