Tv cattiva maestra? Forse sì. O almeno spesso lo diventa. Tuttavia la televisione - e con essa tutti i moderni mezzi di comunicazione, dal cinema al fumetto alla Rete - può diventare anche una straordinaria risorsa educativa, un mezzo da usare nell'istruzione scolastica e nei processi di apprendimento. La Tv, insomma, può diventare una buona maestra, se maneggiata con cura, senso di responsabilità e professionalità. Nasce così la media education: attività educativa e didattica che usa i mezzi di comunicazione per trasmettere conoscenze e contenuti ai ragazzi. Ma allo stesso tempo anche educazione al linguaggio dei mezzi di comunicazione, guida alla comprensione critica e consapevole dei messaggi culturali che passano attraverso il piccolo schermo o Internet.
Alcuni anni fa è nata l'Associazione italiana per l'educazione ai media e alla comunicazione (Med), un organismo non-profit formato da docenti di varie università - dalla Sapienza di Roma all'Università Pontificia Salesiana fino alla Cattolica di Milano e quella di Torino -, ricercatori, insegnanti, genitori, catechisti, tutti impegnati in diversi modi nella sfida educativa dei bambini e degli adolescenti (la presidente è la professoressa Gianna Cappello dell'Università di Palermo). Le proposte del Med spaziano dai corsi di formazione rivolti a studenti, insegnanti ed educatori, fino ai laboratori per le comunità ecclesiali, per imparare a comunicare la fede e fare catechesi attraverso nuove forme mediali come il video, la fotografia, il fumetto o i blog.
Non solo in Italia. Recentemente la media education è sbarcata in Africa, in Rwanda, grazie al progetto Fenix, promosso in particolare dalla professoressa Cristina Coggi, docente di Pedagogia sperimentale all'Università di Torino, e da padre Clodoveo Piazza, gesuita, per oltre 30 anni missionario in Brasile e dal 2008 responsabile dei programmi di lotta alla povertà della Compagnia di Gesù in Mozambico. Fenix si propone di affrontare i problemi di apprendimento dei bambini nella scuola dell'infanzia e in quella primaria in Paesi e contesti di povertà, guerra ed emarginazione sociale.
«Con un'équipe dall'Italia abbiamo trascorso tre settimane, a ottobre del 2010, in una scuola elementare di
gesuiti nella capitale Kigali». A raccontare è Alberto Parola, ricercatore del Dipartimento di Scienze dell'educazione e della formazione dell'Ateneo di Torino e vicepresidente dell'Associazione Med. «Lì abbiamo lavorato con un gruppo di 44 bambini in condizioni di difficoltà caratteriali, emotive e cognitive: la scuola ci ha fornito i computer e noi, per sviluppare le loro capacità di apprendimento scolastiche e il loro rendimento, abbiamo usato una serie di videogiochi digitali». E osserva: «I bambini fin da piccoli parlano contemporaneamente tre
lingue, la lingua madre, rwandese, con cui si esprimono in casa, il
francese parlato a scuola e l'inglese che usano tra di loro. Se da un
lato il trilinguismo permetterà loro, da grandi, di aprirsi al mondo e
di viaggiare, da piccoli rappresenta un freno all'apprendimento: i
bambini si esprimono bene in tutte e tre le lingue, ma le scrivono tutte
e tre molto male».
Può sembrare un paradosso, eppure il Rwanda, Paese in ricostruzione dopo il tragico conflitto etnico che l'ha martoriato, oggi è molto aperto e avanzato in fatto di accesso alle nuove tecnologie:«A Kigali», spiega Parola, «si sta lavorando sodo per la diffusione capillare del wi-fi, ovvero la connessione a Internet senza fili, e i ragazzini vengono molto incoraggiati all'uso del computer e della Rete». Il progetto Fenix intanto va avanti. «Abbiamo già in programma di tornare presto tra i bambini del Rwanda».