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domenica 26 marzo 2023
 
 

Vietti: «La legge è uguale. Per tutti»

11/02/2011  «L’attività di Pm e giudici non sottende disegni eversivi. Va rispettata. E questo vale anche per il premier», dice il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.

Dagli attacchi alle Procure al processo breve. Michele Vietti, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (Csm), affronta tutti i punti di attrito tra il potere esecutivo e quello giudiziario in un'intervista a tutto campo che Famiglia Cristiana pubblicherà sul n. 8 in edicola dal 16 febbraio. Anticipiamo il testo integrale.


C’è tutto quello che ci si aspetta di trovare nello studio privato di uno come lui, a partire dai testi della Costituzione, del Codice civile e di quello penale consumati dalle frequenti consultazioni, per finire ai Cd di musica classica impilati con cura, Beethoven, Brahms e Mozart su tutti. Due le note eccentriche: il gran numero di papere d’ogni colore e misura («Le  colleziono; beninteso, non parliamo di gaffe») e alcuni bastoni da golf appoggiati in un angolo, ricordo, dice lui, di quando aveva spiccioli di tempo libero da spendere sul green. «Adesso mi devo occupare di ben altre cose», sospira togliendo dalla scrivania i giornali che anche oggi titolano in prima pagina sui Pm sotto schiaffo, sul processo breve e sui vari acciacchi della giustizia italiana. Michele Vietti, 57 anni appena compiuti, piemontese, avvocato, politico di spicco dell’Udc di Casini, dall’agosto 2010 è il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (Csm).

Si sente in guerra?

«No, perché dovrei? Sento semmai la responsabilità di dare un contributo affinché il Paese superi questa lunga stagione di contrapposizione permanente che lo paralizza e che l’ha ridotto al penultimo posto nella classifica mondiale della crescita».

Che c’entra l’economia?


«C’entra, eccome. L’amministrazione della giustizia, infatti, non è una variabile indipendente dello sviluppo economico. Qualche mese fa il rettore dell’Università Bocconi ha ricordato che la crescita italiana subisce un costante rallentamento dovuto anche alla diffusa illegalità. I Paesi dove funziona la giustizia, e in particolare la giustizia civile, tendono, invece, a specializzarsi nei settori produttivi più sofisticati e reggono meglio la sfida della concorrenza».

I magistrati si muovono come se fossero in trincea…

«Sono in trincea nel senso che devono difendere la legalità, un valore fondamentale senza il quale non ci sarebbe lo Stato di diritto. È la nostra Costituzione che affida ai magistrati il compito di garantire la legalità, intervenendo quando è violata. Questo si fa attraverso il processo, l’unico strumento con cui si assegnano i torti e le ragioni. Senza, saremmo alla giungla».

I processi vanno fatti…

«L’alternativa è la prevaricazione. Tutti devono rispettare le regole».

Nessuna eccezione, dunque...

«Nessuna eccezione. Semmai il principio vale in particolare per chi ricopre incarichi istituzionali o incarna uno degli altri poteri».

Come, ad esempio, il Primo ministro...

«Come ho avuto modo di affermare in occasione della recente inaugurazione dell’anno giudiziario, l’attività dei Pubblici ministeri e dei giudici non sottende disegni eversivi. Tutti devono rispettarla. E questo vale anche per il presidente del Consiglio dei ministri. Ciò non significa dover applaudire sempre e comunque i giudici. Ci mancherebbe. Ma se una società interpreta il sacrosanto diritto di critica, sale della democrazia, come rifiuto delle regole, come delegittimazione di chi ha la funzione di applicarle e farle rispettare, allora si esce dallo Stato di diritto e ci si incammina verso il passato, non verso il futuro».

Il conflitto lacera i vertici dello Stato…

«Condivido l’allarme del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che è anche il presidente del Csm. Si è superato il livello di guardia e occorre quanto prima ristabilire un corretto rapporto tra le istituzioni. Il fisiologico confronto, anche aspro quando è necessario, tra forze politiche, ormai si è trasformato in un patologico scontro che non risparmia nessuno, dalla presidenza del Consiglio, alle presidenze di Camera e Senato, a vari ministri. Si arriva perfino a mettere in discussione gli stessi cardini del convivere civile basato sulla separazione dei poteri, come si fa, ad esempio, quando si vuol limitare l’indipendenza e l’autonomia di quello giudiziario. Mi auguro che l’Italia riesca a uscire da questo inverno di delegittimazione. Dobbiamo tutti ricordare che gli uomini passano, ma che le istituzioni restano».

Resta anche il Vangelo. S’è formato dai salesiani e dai gesuiti, è credente, è padre e nonno. Visto il moltiplicarsi di certi pessimi esempi, come vive quest’epoca segnata dagli scandali e dall’emergenza educativa?

«In più occasioni il Papa ci ha ricordato che la crisi dell’etica pubblica è conseguenza della crisi dell’etica privata. Il venire meno dei valori fondanti della nostra civiltà cristiana, la mercificazione di qualunque sentimento, la divinizzazione del denaro e del successo sono purtroppo penetrati nel tessuto sociale e stanno logorando coscienze personali, rapporti interpersonali, comunità civile. Costruire sulla roccia della Parola di Dio resta un antidoto sicuro contro lo smarrimento di quest’epoca buia».

Organici insufficienti, norme troppo numerose e spesso contraddittorie, un presidente del Consiglio che urla ripetutamente contro i giudici: qual è a suo avviso il principale problema della giustizia oggi, in Italia?

«È avere una ragionevole durata dei processi. L’Europa ci condanna perché i nostri processi penali e civili durano troppo, ci vuole un grande sforzo collettivo di tutti gli operatori della giustizia per accelerare i tempi. Una risposta tardiva è una giustizia negata».

Ben venga allora il “processo breve” tanto caro al centrodestra e a Silvio Berlusconi…

«Chi non è d’accordo sul fatto che il processo debba essere breve? L’importante è che il processo diventi più breve rimanendo un processo, perché se per farlo breve lo rendiamo monco del suo sbocco naturale, che è la decisione, allora semplicemente non abbiamo più il processo. Se applicassimo alla sanità i principi del testo all’esame della Camera, sarebbe come pretendere di fissare un tempo massimo di ricovero perché il malato guarisca, trascorso il quale, se non è guarito, andrebbe soppresso».

Che fare allora?

«Occorre piuttosto intervenire attraverso una più razionale distribuzione delle risorse esistenti, cominciando, ad esempio, dalla revisione delle circoscrizioni giudiziarie disegnate ancora sulla geografia di un’Italia ottocentesca e preunitaria. Il numero di tribunali, già elevato in sè (sono 165 in tutto, con relative Procure della Repubblica), è esorbitante in relazione ad alcuni distretti. Solo in Piemonte ci sono 17 tribunali, con altrettante procure; nel piccolo Abruzzo 8. In Sicilia si contano 4 Corti d’appello. Si tratta di uffici collocati secondo logiche figlie di un’epoca in cui ci si spostava a cavallo in un contesto di economia agricola».

Si dice: i magistrati lavorano poco…

«Si tratta di un’affermazione piuttosto semplicistica, basata sull’oggettiva lentezza dei tempi della giustizia italiana. In realtà è vero che una migliore organizzazione del lavoro può condurre a migliori performance, come dimostrano alcuni recenti esempi positivi in tutto il Paese, ma la questione è assai più complessa. Lo testimoniano gli ultimi dati della Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej), che ha constatato come nel 2008 quanto a produttività nel contenzioso civile l’Italia sia al secondo posto per numero di affari definiti (2.693.564), dopo la Russia, ma davanti a Francia (1.774.350) e Spagna (1.620.000). Anche nel settore penale la situazione è analoga, sebbene in questo ambito gli ordinamenti siano assai diversi e quindi più difficilmente paragonabili: l’Italia è addirittura al primo posto con 1.204.982 procedimenti definiti, quasi il doppio della Francia (618.122), il Paese a noi più vicino sul piano dell’ordinamento giuridico. Occupiamoci dei problemi quotidiani che affliggono la giustizia penalizzando tutti i cittadini, anziché vagheggiare “grandi riforme” che interessano a pochi».

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