Benjamin Netanyahu festeggia la vittoria (Reuters).
Benjamin "Bibi" Netanyahu, da buon ex militare delle forze speciali, ha condotto con questa campagna elettorale il più brillante dei suoi blitz. Ha giocato "sporco" nella giusta misura ma, soprattutto, ha fatto leva sull'arma politica più antica del mondo: la paura. Quella dei palestinesi, ovviamente. E quella dell'Iran, che da almeno dieci anni, secondo i politici della destra israeliana, è a pochi minuti, al massimo pochi giorni dall'ottenere la bomba atomica.
Ma il vero colpo da maestro di Bibi è stato trovare qualcuno sufficientemente autorevole agli occhi dell'opinione pubblica israeliana che mostrasse di condividere quella narrazione: il congresso Usa, a maggioranza repubblicana, memore dei bei tempi dell'era Bush, si è prestato alla bisogna. Così l'elezione si è trasformata in un referendum e Netanyahu è uscito vincitore.
I 30 seggi (sui 120 totali del Parlamento israeliano, la Knesset) conquistati dal Likud (che nel 2013 ne aveva avuti solo 13) garantiscono quindi il futuro politico di Netanyahu. Ma poco altro. Per compiere la sua impresa, infatti, il premier uscente ha dovuto cannibalizzare tutti gli alleati del precedente Governo: i centristi di Yair Lapid, passati da 19 a 11 seggi, i destrorsi dell'ex ministro degli Esteri Lieberman (da 13 a 6), i nazionalisti di Naftali Bennett (da 12 a 8). Per salvare se stesso e il Likud, insomma, Netanyahu ha dovuto picconare la coalizione con cui prima governava.
La diaspora governativa, peraltro, ha avuto i suoi effetti anche a sinistra. Kulanu, il partito centrista fondato nel novembre scorso da Moshe Khalon (ex membro del Likud ed ex ministro di Netanyahu, uscito dal partito e dal Governo proprio in polemica con Bibi) ha ottenuto un ottimo risultato ma i suoi inaspettati 10 seggi hanno probabilmente impedito all'Unione sionista (24 seggi) di raggiungere e magari superare il Likud.
In concreto, ora toccherà a Netanyahu l'incarico di formare il Governo ma il suo compito, vista la frammentazione della destra, sarà difficile. In ogni caso, se il nuovo Governo Netanyahu vedrà la luce, sarà difficile per il premier non consegnare ai partiti degli ebrei ultraortodossi, i cui seggi sono ora decisivi, una forte leva per condizionare le sue scelte.
Nulla di nuovo sotto il sole? Se ci limitiamo alle dinamiche destra-sinistra, tipiche della nostra politica, in effetti nulla di particolarmente nuovo. Ma Israele non è l'Italia o la Francia e il fatto nuovo invece c'è stato: l'ottimo risultato ottenuto dalla Lista araba unita guidata da Ayman Odeh, arrivata a 14 seggi. Per la prima volta i partitini degli israeliani di origine araba si sono presentati uniti alle elezioni, e per la prima volta da molti anni gli elettori israeliani di origine araba non hanno disertato le urne. Così la Lista araba è diventata il terzo partito di Israele, superata solo dal Likud e dall'Unione sionista.
E' una grossa novità. Da un lato, i partiti più o meno tradizionali del quadro politico israeliano saranno costretti a fare i conti con una formazione a base etnica, ma capace di attrarre anche voti "progressisti" esterni al bacino arabo. A fare cioè i conti con quel 21% della popolazione israeliana che, per diverse ragioni, è stato a lungo assente dalla discussione (e anche dalla contrattazione) politica.
Dall'altro, ed è il dato forse più importante di tutti, riporta la corposa minoranza degli israeliani di origine araba all'interno della normale dialettica democratica, sottraendoli alla sirena della rassegnazione apatica e dell'isolamento etnico così come a quella, non meno insidiosa, del revanscismo venato di suggestioni violente. Sta in processi come questo il futuro di Israele, assai più che nella sopravvivenza politica di un leader come Netanyahu che, con questo successo, allunga il proprio primato di premier più longevo nella storia di Israele, essendo stato in carica dal 1996 al 1999 e dal 2009 a oggi.