Vincenzo Salemme in una scena di E fuori nevica
E' la scena più celebre del film Napoli milionaria, che Eduardo De Filippo ricavò nel 1950 dalla sua commedia. Totò si accomoda al tavolo d’una trattoria e tira fuori un’enorme pagnotta nella quale ha stipato il primo, il secondo, il contorno, una pera e pure le posate e il tovagliolo. Tanti anni dopo, il grande drammaturgo scomparso trent’anni fa assistette a una scena assai simile: un giovanotto che per la gran fame consumava con voracità il suo pasto. Gli passò davanti e sibilò: «Guagliò, chiano chiano» (piano piano, ndr). Quel giovanotto era Vincenzo Salemme, che lavorò per la compagnia di Eduardo dal 1979 al 1984, l’anno della sua morte. Da allora ne ha fatta di strada, scrivendo, dirigendo e interpretando decine di commedie, al teatro e anche al cinema, proprio come il suo maestro. L’ultima, ...E fuori nevica!, grande successo nei teatri nel 1994, lo sta replicando anche al cinema con gli stessi attori principali di vent’anni fa. Ma lui ci tiene a precisare: «Purtroppo per me, non ho nulla che mi accomuni a Eduardo».
Come l’ha conosciuto?
«A 17 anni ho fatto i miei primi lavori con Tato Russo e Sergio Solli. Fu lui due anni dopo a farmi conoscere Eduardo. Andammo a Cinecittà perché stava cercando delle comparse per le sue commedie da rappresentare in Tv. Solli mi presentò: “Direttò, questo ragazzo vorrebbe fare la comparsa”. Eduardo mi guardò e chissà per quale ragione, forse perché mi vide magro magro, rispose: “No, facciamogli dire un paio di battute, così piglia la paga da attore”. Così cominciai a lavorare per lui».
Fu un colpo di fulmine, dunque?
«Direi più un colpo di fortuna».
Come si comportava sul lavoro?
«Era un uomo molto semplice, ma anche severo e ti metteva in soggezione. Chi non era a posto con la propria coscienza con Eduardo sbandava, perché con lo sguardo ti bucava il cuore. Dovevi essere totalmente sincero con lui, altrimenti se ne accorgeva subito».
Da uomo schivo qual era, diceva che è proibito dare consigli quando la gente non li chiede. A lei li dava?
«Era talmente bravo che con due parole faceva capire tutto. Nell’atto unico Gennariello dovevo fare un ingegnere stralunato. Per spiegarmi il ruolo fece riferimento al personaggio che Andy Luotto interpretava nel programma L’altra domenica di Renzo Arbore. Mi disse: “O’ tenit’ presente chillo scemo arret’ ad Arbore? Quello dovete fare”».
Qual è il lavoro che ha fatto con lui di cui è più orgoglioso?
«Il ricordo più bello è la tournée del 1979-80 con lo spettacolo Tre atti unici, che si chiuse a Milano al Teatro Manzoni, dove festeggiammo gli 80 anni di Eduardo e lui annunciò che si sarebbe ritirato dalle scene».
Le sue commedie avevano spesso momenti molto drammatici. Potrebbe farlo anche lei? «Innanzitutto lui aveva un fisico molto diverso dal mio e poi aveva un’altra storia: veniva dalla fame, dalla guerra, si poteva permettere cose che credo il mio pubblico attualmente non accetterebbe ancora».
Eppure, nell’ultimo film ...E fuori nevica!, oltre alle risate ci sono anche scene molto commoventi legate al personaggio di Cico, uno dei tre fratelli attorno ai quali ruota la pellicola, costretti a vivere insieme per questioni di eredità. Cico, interpretato dal bravissimo Nando Paone, è un disabile psichico, ma dimostra una sensibilità che i fratelli, l’egocentrico e immaturo Enzo (Salemme) e il nevrotico Stefano (Carlo Buccirosso), non hanno.
Lei ha tre fratelli. Quanto si è ispirato al rapporto che ha con loro per costruire i personaggi del film?
«Per niente. Il mio punto di riferimento è piuttosto la grande tradizione della commedia dell’arte. Ho creato tre personaggi con caratteristiche molto diverse e li ho fatti interagire. La comicità nasce da questo incontro-scontro. È una comicità che nasce dalle situazioni, opposta rispetto a quella, derivata dalla Tv, che vediamo oggi in molti film basati sulle battute di un unico personaggio e che a me, personalmente, piace meno. Non mi riferisco chiaramente a Checco Zalone, che è fortissimo»
Dove ha ambientato il film?
«Nel centro storico di Napoli, tra via Foria, via Roma e Mergellina. In precedenza avevo girato solo un altro film a Napoli, L’amico del cuore, nel 1999. Ritornarci dopo tanti anni mi ha fatto un bell’effetto. Io non sono un maestro di regia cinematografica, eppure ogni volta che la inquadravo restavo incantato. E dire che volutamente ho evitato i vicoli o altri scorci di Napoli molto presenti di solito nei film, perché voglio che tutta l’attenzione del pubblico sia concentrata sugli attori».
È sposato da quasi 40 anni. Come ha conosciuto sua moglie Valeria?
«A una Festa dell’Unità a Napoli, nel 1976. Io lavoravo in uno stand che vendeva pesce del mio paese, Bacoli, che si trova sul golfo di Pozzuoli. In realtà i prodotti arrivavano tutti dalla Tunisia, congelati. A un certo punto mi arrabbiai: “Non va bene. Voi ripetete sempre che i comunisti sono onesti e poi vendete pesce congelato…”. Finché non arrivò Sergio Solli, l’amico attore che in seguito mi fece conoscere Eduardo e in quell’occasione mi presentò mia moglie. Ci scambiammo uno sguardo e ci amammo subito. Il grande Massimo Troisi intitolò un suo film Pensavo fosse amore e invece era un calesse. L’amore è proprio così: se è vero, non ha bisogno di parole».