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lunedì 23 giugno 2025
 
IL FOCUS
 

Violenza in carcere, Marcello Bortolato: "Costituzione tradita"

04/07/2021  L'analisi del Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze: "Episodi come quello di Santa Maria Capua Vetere sono patologici e sono gravissimi in sé e perché fanno perdere credibilità allo Stato, ma servirebbe una riforma complessiva per un sistema della pena più utile a chi la sconta e alla società"

Le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, oggi al centro di un’inchiesta, sono un pugno nello stomaco e sono inequivocabili: uomini in divisa della Polizia Penitenziaria picchiano: calci, schiaffi, manganellate. Uomini detenuti si coprono la testa con le mani, senza riuscire a difendersi. Si nota la sproporzione. Quando ci si fronteggia per sedare una sommossa funziona in un altro modo. Sono immagini che feriscono non solo le persone, ma la coscienza, l’immagine dello Stato diritto e una divisa, quotidianamente vestita da tanti altri, spesso in condizioni difficili, nel rispetto delle regole. Abbiamo chiesto a Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, autore con Edoardo Vigna, caporedattore del settimanale “7”, di Vendetta pubblica, il carcere in Italia, uscito da poco per Laterza, in tema di esecuzione della pena, di aiutarci a decifrare quello che sta emergendo dall’indagine e dalle immagini. Vogliamo credere che questa sia la patologia, non la normalità, ma ne resta, innegabile, la gravità.

Dottor Bortolato, qual è dal suo punto di vista l’effetto più grave di episodi come quelli che quei video, inequivocabili, denunciano, in cui rappresentanti dello Stato perdono la misura dei propri comportamenti?

«Mi ritrovo perfettamente nelle parole della Ministra della Giustizia: la Costituzione è stata tradita. La Carta impone alla pena di essere rieducativa e non disumana: qui, invece, si è parlato addirittura di rappresaglia, che non è la legittima reazione ad una rivolta in corso, in cui si può arrivare ad autorizzare l’uso della forza, ma una cosa pensata a freddo per dare, come si dice, ‘una lezione’, una vera e propria ritorsione per riaffermare chi comanda veramente. In questi giorni, in cui sono rimasto profondamente scosso anche come uomo delle istituzioni, mi è tornata in mente una frase di Sandro Margara, che è stato presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, una persona alla quale mi sono sempre ispirato: diceva che l’amministrazione penitenziaria è l’unica istituzione dello Stato che pretende dagli altri un cambiamento ma non è in grado di cambiare se stessa. Tenere le persone recluse per poi reinserirle sembra già un controsenso, ma almeno pretendere che cambino e non tornino a commettere reati è possibile. Mi domando come sia possibile sperare in questo cambiamento dopo che lo Stato stesso tradisce la sua funzione violando la Costituzione. Sappiamo che la stragrande maggioranza degli agenti penitenziari non ha mai fatto e non farà mai nulla di simile a quanto visto in quei video, ma se gli episodi di violenza si ripetono da un po’ di tempo (nel mio distretto vi è un’indagine sul carcere di Sollicciano e una condanna in primo grado per tortura che riguarda il carcere di San Gimignano) dobbiamo interrogarci sulla loro origine che è tutta nella grande tensione che c’è dentro ogni galera e in una cultura della pena dura a morire».

Che idea s’è fatto delle motivazioni profonde?

«Il carcere è un’istituzione totale in cui si pretende l’obbedienza. C’è un soggetto che sta sopra un altro: uno dei due, ha il privilegio della forza legale. Il carcere di per sé non è alieno alla violenza perché per sua natura limita molte facoltà umane, il problema è la sua misura perché si sa che, dato il contesto, la relazione di potere che si instaura tra chi custodisce e chi è custodito può trascendere. Da un lato il Covid-19 ha scoperchiato una pentola già in ebollizione da anni, dall’altro l’Italia nel 2013 ha ricevuto una condanna dalla Corte di Strasburgo per sovraffollamento carcerario, lì abbiamo toccato il picco, che poi s’è ridotto, ma la situazione è ancora critica: su questo problema che già c’era s’è innestata la pandemia, con un rischio sanitario ovvio nella promiscuità e nel sovraffollamento, che però è stato sottovalutato all’inizio. A questo s’è aggiunto il fatto che per precauzione sono stati interrotti i colloqui con i familiari, e ciò ha provocato tensioni che si sono concretizzate in vere e proprie rivolte nelle carceri. Dall’altro lato il carcere fa i conti con un personale penitenziario scarso e sempre più provato, alle prese con uno dei mestieri più difficili del mondo. Ci sono fenomeni studiati in criminologia: l’esempio più noto è l’esperimento di Stanford. Philip George Zimbardo, psicologo statunitense, formatosi presso la Yale University, ha confutato negli anni ’70 del ‘900 la credenza assai diffusa secondo cui i comportamenti degradati e violenti osservabili all'interno di un'istituzione come il carcere sono soprattutto dovuti a disfunzioni della personalità, innate o apprese, dei carcerati e delle guardie, dimostrando piuttosto come tali condotte dipendano dalle specifiche caratteristiche del contesto. Si sa che se metti insieme due gruppi di persone, affidando a uno dei due il monopolio della forza, accade che si verifichino dinamiche per le quali dopo un certo tempo possano aversi episodi di sopraffazione violenta. Le responsabilità sono certamente sempre individuali, sarebbe un grave errore criminalizzare un intero Corpo di polizia che ha spesso dato grande prova di sé, però è anche vero che il carcere di per sé è un luogo violento dove dinamiche di questo tipo ineriscono alla sua intrinseca brutalità».

Può spiegare questo concetto a chi non ha mai visto un carcere da vicino?

«C’è la violenza in carcere, che non è soltanto quella ora sotto i riflettori ma anche la violenza di detenuti contro altri detenuti e contro gli agenti, infermieri, educatori; c’è la violenza dei detenuti contro loro stessi che si manifesta in atti di autolesionismo e suicidi, ma c’è anche una violenza intrinseca che inerisce alla sua naturale ed ineliminabile ferocia e che deriva dall’essere un ambiente in cui si formano gerarchie, obbedienze facili a degenerare in sopraffazioni e violenze. Il momento dei mesi di marzo-aprile 2020, in cui questi episodi si sono verificati, è stato drammatico, c’è stata forse da parte dell’amministrazione la sensazione che le rivolte potessero scappare di mano. Detto questo, eventi come quelli di Santa Maria Capua Vetere, paragonabili a quelli della scuola Diaz di Genova, sono inaccettabili, espongono il Paese ad un umiliante discredito internazionale, perché è impensabile che uno stato democratico come il nostro, uno dei pochi al mondo ad assegnare alla pena un compito rieducativo in Costituzione, poi possa in concreto attuarne i principi con queste modalità. Il fatto è gravissimo, anche per il numero delle persone coinvolte: si parla di 52 agenti a tutti i livelli coinvolti e dei loro vertici, ferma restando la presunzione di innocenza che deve valere anche per loro - si dovrà capire chi c’era e chi non c’era – ma le immagini sono inequivocabili: come può un’istituzione essere credibile nel momento in cui pretende dai suoi custoditi un ripensamento sui reati commessi e un cambiamento reale, se poi anche un solo rappresentante di essa si comporta in quel modo? Un danno enorme per le istituzioni, per il carcere, per lo stesso corpo della Polizia penitenziaria».

Nel vostro libro Vendetta pubblica si ragiona dei problemi del carcere. La Costituzione chiede che la pena tenda alla “rieducazione”. Quanto il carcere italiano nella sua realtà quotidiana è in grado di rispondere a questa richiesta della Costituzione?

«Non mancano esempi positivi, ci sono istituti in cui si applicano i principi dell’ordinamento penitenziario, in cui si danno gli strumenti: lavoro, studio, rapporti con la famiglia, un carcere ‘aperto’, tutto quello che dovrebbe fare in modo che la pena sia “utile” al reinserimento sociale, che non è solo un interesse del detenuto ma anche della società. Purtroppo però bisogna prendere atto che in Italia molti detenuti non hanno possibilità di lavorare, non possono accedere per varie ragioni alle misure alternative e, soprattutto, vi è una risposta al reato ancora carcero-centrica: in Italia ogni tre condannati, uno è in misura alternativa, due sono in carcere. In Francia il rapporto è rovesciato».

Può spiegare al lettore comune che cosa si intende con misura alternativa?

«La possibilità di espiare la pena in una modalità diversa dal carcere e ‘nella comunità’: l’affidamento in prova, gli arresti domiciliari. Dopo gli episodi di Santa Maria Capua Vetere tutto questo rischia però di diventare un mero esercizio retorico perché l’emergenza ora sembrerebbe quella di rendere il carcere qualcosa di conforme a Costituzione nel senso del rispetto almeno dei diritti fondamentali dell’uomo. Quello che abbiamo visto ne è la negazione, non possiamo accettare che si ripeta. Ciò non toglie che si debba affrontare globalmente la situazione carceraria come aveva provato a fare il ministro Orlando nel 2015 con gli Stati generali, incentivando le misure alternative, una riforma di cui non è rimasto nulla. Il nostro Vendetta pubblica è un titolo provocatorio, ma serve a dire che se la pena è solo vendetta non serve a nessuno, neppure alla vittima. Men che meno alla società. Non aiuta le persone detenute a reinserirsi e facilmente, in mancanza di alternative, quando la pena termina esse tornano a delinquere.».

C’è spesso una discrepanza tra buone intenzioni e realtà, sappiamo che lo Stato, per esempio, riesce a recuperare solo una parte minima dei crediti delle sanzioni pecuniarie. Tutto questo favorisce la prospettiva carcero-centrica?

«Sì, è un problema che esiste. Spesso le misure alternative non si riescono ad applicare per problemi di marginalità sociale: banalmente chi non ha una casa dove andare non può essere mandato ai domiciliari. Circa un terzo della popolazione carceraria si trova lì per reati attinenti alla droga. Ma il carcere non è adatto a rispondere a problemi che hanno natura sociale, come dipendenze, integrazione di stranieri, perché lì dentro le marginalità e i problemi si aggravano. Tutto parte dall’articolo 27 della Costituzione, se si rispettasse alla lettera il carcere diventerebbe un’altra cosa, non si verificherebbero tante distorsioni, ma nessun politico vuole occuparsi della riforma carceraria, perché non porta consensi».

Nel libro parlate del carcere come un luogo di “contagio criminale” anche questo è difficile far capire?

«Sì, eppure è una piaga terribile. Il carcere è la più grande scuola di criminalità. Capita che uno entri per un primo reato non dei più gravi, magari perché non ha un posto dove andare ai domiciliari e lì rischia di incontrare detenuti non di primo pelo alla ricerca di future complicità che lo assoldano per compiere reati più gravi, così quando esce avranno un alleato in più. Bisogna assolutamente togliere da quell’ambiente il piccolo criminale perché rischia di uscirne molto meno piccolo. Bisognerebbe differenziare gli istituti, crearne molti a ‘custodia attenuata’ per chi entra per la prima volta per reati magari bagatellari. Non dobbiamo dimenticare che il carcere è gerarchia non solo perché i detenuti devono obbedire all’istituzione, ma perché vi si crea una ‘scala’ criminale, chi ha un ascendente e un alto profilo criminale lo fa pesare, diventa capo. Nella criminalità organizzata sono maestri, in questo, infatti c’è una logica nel fatto che stiano il più possibile separati dal resto».

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