Se mi lasci ti cancello. Dalla tua vita, dal tuo futuro, dalle persone che ti vogliono bene. In Italia, troppe volte, le donne muoiono così. Cancellate dagli uomini che pretendevano d’amarle. Come se si potesse coniugare il verbo amare al singolare, senza rispetto per l’amata. Settanta volte su cento, quando la vittima di un omicidio è donna, alla mano che uccide corrisponde la faccia di un uomo conosciuto: un familiare, un partner, un ex che ha confuso l’amore e il possesso. Muoiono come Carmela, che si è messa in mezzo per difendere sua sorella Lucia dalla furia di Samuele. Come Melania, come le oltre cento che dall’inizio dell’anno ne hanno condiviso la malasorte.
In questi casi alcuni esperti sostengono che sia più preciso parlare di “femminicidio”. Provare a spiegarne l’assurdità è dipanare un groviglio di eredità culturali, ma sarebbe meglio dire anticulturali, che toccano un modo arcaico, e ìmpari, di concepire i rapporti tra uomini e donne: un modo che resiste alla civiltà che fa progressi. I giovani maschi che oggi si armano, maltrattano, aggrediscono perché non accettano un rifiuto o nella convinzione di essere stati traditi, nulla sanno dei «delitti a causa di onore » contemplati dal Codice penale fino al 1981, che attenuavano la pena per chi uccideva credendo di salvare l’onore proprio o della famiglia. Non erano nati o quasi. Eppure agiscono come se quell’idea distorta di onore, evidentemente respirata vivendo, li legittimasse ancora.
Non è neppure lontanissimo il tempo in cui il Codice civile non riconosceva, come accade invece oggi, alle donne nel matrimonio pari diritti e pari doveri rispetto ai mariti: fino al 1975 la legge assegnava al marito il ruolo di capofamiglia, garantendogli maggiore potere decisionale rispetto alla moglie, che era obbligata ad assumerne il cognome e ad accompagnarlo dovunque egli ritenesse opportuno fissare la residenza. Anche la possibilità per una donna sposata di avere un lavoro fuori casa era considerata subordinata alle esigenze della famiglia, stabilite comunque dal marito.
Carmela, Lucia, Melania e le altre, figlie degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, non avevano ragione di porsi il problema di quelle leggi, cassate da altre più eque e rispettose della pari dignità. Ma purtroppo quel codice, troppe volte, sopravvive a sé stesso nella mentalità in cui le persone vivono immerse. Tutte le persone: uomini e donne. Secondo una statistica Istat del 2007, solo il 18% delle donne che riconosceva di aver subìto maltrattamenti o violenze, riteneva quella condotta «un reato», anche se il 44% arrivava alla consapevolezza che quel comportamento fosse «sbagliato» e non semplicemente (come un altro 36%), «qualcosa che accade»: una fatalità da tollerare in silenzio.
Spesso il femminicidio è l’ultima tappa di una serie di vessazioni e violenze consumate all’interno delle mura domestiche o comunque di una relazione, tutte cose che configurano reati che vanno dai maltrattamenti allo stalking, introdotto nel 2009 per punire l’aggressione psicologica fatta di continue telefonate, tentativi di controllo, pedinamenti che minano la tranquillità della vittima. Molte volte comincia così la deriva che porta al peggio. A comportarsi in questo modo, spesso, sono uomini che non accettano il no di una donna, figli di una tradizione da cui per secoli si sono sentiti legittimati a pretendere con la forza quello che veniva loro negato con la ragione.
Basti pensare che fino al 1968 l’adulterio, illegale, era punito solo se a tradire era la moglie. E la violenza sessuale in Italia è considerata «un delitto contro la persona » da appena 16 anni: fino al 1996 era un reato contro «moralità pubblica e il buon costume », contro concetti astratti anziché contro la donna che la subiva, come se la vittima non esistesse, come se fosse trasparente. Tornano in mente le parole di Leonardo Sciascia che, in 1912+1, racconta quanto facilmente scattasse negli avvocati del primo Novecento «la convinzione che, nei casi di vio-lenza carnale, la donna avesse sempre torto, coscientemente o incoscientemente, che rappresentasse una provocazione».
Un secolo dopo molte cose sono cambiate, il diritto non è più un affare per soli uomini, ma le aggressioni di partner e familiari si denunciano ancora pochissimo. Per vergogna, per paura, per pregiudizio. «Spesso», racconta Paola Di Nicola, giudice a Roma, «le donne dichiarano in aula di aver sbagliato a denunciare i maltrattamenti subiti perché il marito, talvolta anche il figlio, è solo possessivo, solo geloso, solo attaccato alla famiglia, solo nervoso». In quel “solo” c’è un’idea di mondo. Un’idea che, anche quando non fa a pezzi i loro corpi, distrugge la vita di moltissime donne.
Elisa Chiari
Le opportunità non sono pari, nemmeno a guardarle dallo scranno di un Tribunale. Quando chi commette un reato lo fa abusando della propria forza o del proprio potere le donne sono solo vittime. Quando le donne passano in un'aula spesso è perché un reato si è consumato, il più delle volte sul loro corpo. Se finiscono in prigione, le donne, invece, è soprattutto per aver violato la legge contro la droga o per reati contro il patrimonio: spaccio, furtarelli. Microcriminalità. Crescono invece al ritmo di uno ogni due/tre giorni gli omicidi delle donne per mano di uomini che conoscevano. Una sproporzione di genere enorme, in grandezza e numeri, quella fotografata dai dati sui detenuti aggiornati al 30 giugno dal Ministero della giustizia.
E intanto, in questi giorni, fa discutere in Parlamento, il progetto di legge, elaborato da Giulia Bongiorno (Fli) e subito accolto da Mara Carfagna (Pdl), che propone di introdurre un'aggravante specifica nell'articolo 576 del Codice penale, per punire con il carcere a vita chi uccida dopo anni di maltrattamenti e chiunque uccida «in reazione a un'offesa all'onore proprio o della famiglia di appartenenza o a causa della supposta violazione, da parte della vittima, di norme o costumi culturali, religiosi o sociali ovvero di tradizioni proprie della comunità d'origine», caso che si adatta alle giovani straniere uccise da parenti, per presunti costumi troppo occidentali.
Pensando soprattutto a tutelare le parti deboli nell'immigrazione, si propone di introdurre anche un reato specifico di «matrimonio forzato» per punire con il carcere da uno a cinque anni chiunque forzi o costringa qualcuno a contrarre matrimonio contro la propria volontà. Lo stesso vale per chi attira con l'inganno in un'altro paese una persona per costringerla a sposarsi. In caso di approvazione quel matrimonio sarebbe nullo per la legge italiana.
Sono arrivati subito sostegni trasversali dalle donne del Parlamento: Elsa Fornero, Laura Puppato, Barbara Saltamartini. Altre però, come la senatrice Pd che propone un suo progetto alternativo, ritengono che una legge siffatta sia troppo orientata all'aspetto penale, dunque repressivo, e non abbastanza alla prevenzione. Si discuterà a lungo ma la legislatura è agli sgoccioli. Il tempo è poco.
Elisa Chiari
Paralizzate dal dubbio, dalla paura, semplicemente dal non sapere che fare, dove andare. Spesso le donne in difficoltà non reagiscono. «C’è di più», spiega l’avvocato Geraldine Pagano, «il più delle volte ci mettono molto tempo a capire lo stato di difficoltà in cui si trovano, perché sottovalutano i campanelli d’allarme che precedono le situazioni a rischio».
Segnali talora percepiti come banali, come una gelosia esasperata o un atteggiamento possessivo, possono sconfinare in eccessi da non sottovalutare: «Siamo oltre la normalità quando un marito ti chiede cento volte al giorno dove vai e con chi, quando ti controlla continuamente il cellulare, per vedere i messaggi. Così come sono a rischio gli uomini che isolano le loro donne, impedendo loro di avere relazioni con la famiglia d’origine o allontanandole dalle amicizie. Non è neppure giusto che una donna accetti come normali le pressioni di un partner che le impediscono di avere un lavoro fuori casa o comunque la convince a rinunciare “per amore” ad avere proprie aspirazioni professionali. In casi come questi è opportuno restare vigili perché la situazione può degenerare».
Non sempre però le donne che pure si accorgono delle criticità sanno liberarsene. Spesso si bloccano perché non sanno a chi chiedere aiuto: «Il mio consiglio è di rivolgersi in caso di emergenza alle forze dell’ordine e, comunque, ai centri antiviolenza». Sono un servizio pubblico, che risponde 24 ore su 24 al numero di telefono di pubblica utilità 1522, accessibile gratuitamente su tutto il territorio nazionale da telefoni fissi e cellulari. A volte a paralizzarle è la paura: «Temono di non poter pagare l’avvocato, di perdere i figli, di non avere un posto dove andare, senza sapere che spesso le associazioni e i centri antiviolenza mettono a disposizione strutture che possono accogliere le madri maltrattate con i loro figli e hanno un avvocato che, di solito, lavora con il gratuito patrocinio, come previsto dalla legge, per tutelare chi non ha reddito. Anche il timore di non poter più mantenere sé stesse e i figli è infondato: un marito violento è tenuto come tutti gli altri, per legge, a farsi carico della moglie e dei figli in caso di separazione».
E quasi sempre un marito violento rimane tale anche quando si scusa: «Capita spesso che all’esplosione di violenza seguano periodi di apparente amore ideale, ma è solo una trappola psicologica, che tiene le donne legate. Difficilmente la violenza è un episodio isolato: torna, si ripete».
Elisa Chiari
Secondo dati della Polizia di Stato, tra il 2006 e il 2010 in Italia sono state uccise 807 donne. Gli omicidi volontari sono passati da 84 nel 2005, a 180 nel 2006, a 157 nel 2010. Di fronte a episodi spietati come quello di Palermo, gli stessi uomini si chiedono cosa succeda agli uomini. Giriamo la domanda allo psichiatra e criminologo Marco Cannavicci, esperto in medicina legale e psicologia forense. «Intanto notiamo che è un fenomeno trasversale», risponde.
«Riguarda sia chi ha bassa cultura e chi alta, chi sta al Nord e al Sud, giovani e meno giovani, uomini di classi sociali molto differenti. Il problema affonda nella personalità del soggetto. Oggi persone di questo tipo hanno scarso controllo degli impulsi e dell’emotività. Tendono a sentirsi dominanti, padroni rispetto alla donna. Esiste ancora una considerazione della donna come sottomessa all’uomo, e questo crea grossi conflitti, perché invece la donna negli ultimi decenni ha avuto una crescita nel ruolo sociale tale per cui non accetta più una simile subordinazione. Crescendo, si trova a interagire con figure maschili con le quali vuole parità, e ciò non è accettato da questi uomini che sfociano nella violenza. Non vogliono perdere il privilegio antropologico maschile che la società italiana conferiva loro nei decenni precedenti».
La legge sullo stalking, di fatto, non ha ridotto in modo incisivo le violenze...
«Le persone non modificano i comportamenti solamente perché una legge proibisce alcune cose. Per molti molestatori non funziona da deterrente la minaccia rappresentata dall’arresto, dalla detenzione. Sonoindifferenti al fatto che esista una legge, e spesso lo sono perché viene applicata in modo blando, o solo per casi estremi. Magari le forze di polizia pensano di modificarne i comportamenti con una semplice diffida. In realtà non è così».
Cos’altro potrebbe servire?
«Già nella scuola dell’obbligo, accanto a tutti gli altri fattori che riguardano la vita sociale, si dovrebbe inserire il discorso del rispetto nei comportamenti tra uomini e donne, della parità tra maschile e femminile. Ma la cosa più importante è insegnare al giovane come controllare le emozioni. Anche molti adulti, quando si trovano in conflitto con una persona, non sanno né mediare né negoziare né raggiungere compromessi».
Rosanna Biffi
Prevenire, proteggere, perseguire. Sono le tre parole chiave indicate da Gabriella Battaini Dragoni, vice segreario generale del Consiglio d'Europa, per spiegare il senso della Convenzione europea che l'Italia si appresta a ratificare. Firmata da 24 Paesi e ratificata per il momento solo dalla Turchia (da qui il nome di Convenzione di Istanbul), la normativa prevede che «non ci sia solo la criminalizzazione della violenza contro le donne, ma che ci sia un approccio complesso che va dalle radici di quella violenza fino alla perseguibilità dei responsabili», spiega la Battaino.
Una volta ratificata da almeno 10 Stati di cui 8 dell'Unione, la Convenzione entrerà in vigore. Un attento monitoraggio verificherà l'applicazione delle singole norme.
L'Italia, con il ministro Elsa Fornero, che ha la delega alle pari opportunità, con il ministro della Giustizia Paola Severino e con Marta Dassù, sottosegretaria agli Esteri, ha manifestato il desiderio del Governo di ratificare la Convenzione prima della scadenza della legislatura. Una corsa contro il tempo che prevede il varo di una legge quadro sulla materia che riordini le singole normative già in vigore.
In particolare, sul fronte della prevenzione, bisognerà formare professionisti in grado di assistere le vittime, includere nei programmi scolastici di insegnamenti sull'eguaglianza di genere, elaborare progetti di sensibilizzazione dell'opinione pubblica.
Sul piano, invece, della protezione, vanno rafforzate le misure già esistenti (case famiglie, numeri di assistenza attivi 24 ore su 24) e vanno previsti appositi servizi di sostegno medico e psicologico, oltre che consulenza giuridica alle vittime e ai loro figli.
«Molto importante», spiega ancora Gabriella Battaini, «è poi la velocità delle risposte. Le donne che denunciano devono avere una risposta immediata di assistenza altrimenti si espongono ancora di più al rischio della violenza. Per questo l'ultima parte della Convenzione, quella che si occupa di perseguire gli autori, prevede sia che le vittime abbiano accesso a misure di protezione speciali durante tutte le fasi delle indagini e dei procedimenti giudiziari, sia la risposta immediata da parte delle forze dell'ordine, sia la debita punizione dei colpevoli».
La novità, ha spiegato la vicesegretaria generale del Consiglio d'Europa, è che per la prima volta si dice che la violenza sia psichica che fisica è una negazione dei diritti dell'uomo. Inoltre, «finalmente c'è un approccio coordinato e complesso su un fenomeno che è in aumento. E che comprende anche gli
atti persecutori, il matrimonio forzato, la sterilizzazione e l'aborto forzati, le violenze psicologiche. Se l'Italia, così come hanno promesso le ministre, riuscirà a ratificare la Convenzione, potrà mettere
ordine nella legislazione frammentata e darsi un'arma seria per prevenire e combattere la violenza domestica e quella contro le donne».
Annachiara Valle