Ha cominciato a frequentare le carceri da volontario prima di diventare sacerdote, quando è stato ordinato. In un dialogo con don Raffaele Grimaldi, oggi ispettore dei cappellani, ha trovato con naturalezza, dopo un’esperienza a Secondigliano, tra i detenuti la sua vocazione. Oggi a 46 anni don Antonio Cimmino è cappellano nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino). All’esperienza tra i detenuti ha da poco dedicato un libro “Gesù dietro le sbarre” (Beyond edizioni).
Don Antonio com’è nato questo libro?
“Dall’input di un amico, dopo una pausa in cui mi ero fermato per ragioni di salute: mi ha spinto a provare a spiegare, attraverso la mia esperienza, che cosa può fare la Chiesa in tema di misure alternative. La cosa più bella è stato poter raccontare, per condividere con altri, le cose che in carcere ho potuto toccare con mano”.
Che cosa ha toccato?
“La sofferenza letta nell’ottica del senso di fallimento di una vita: lacrime da asciugare, speranza da ridare”.
È questo il ruolo di un cappellano?
“È incontrare Gesù nei reietti: occorre sapersi immedesimare, vivere e condividere le storie dell’altro così diverse dalla tua, l’importante è accostarsi da fratelli, senza sguardo indagatore, ma con amicizia. Solo così, rotto il ghiaccio, conquistata la fiducia, si può aprire una riflessione, un ripensamento sul male commesso”.
È difficile spiegare il ruolo del cappellano alla comunità di fuori?
“A volte, quando arrivai a Sant’Angelo, non tutti vedevano bene che il parroco andasse spesso in carcere, temevano per la sicurezza della comunità. Mi chiedevano: "Ma perché invece non vai a visitare gli ammalati?". Ma se poi vedono che sei credibile si fidano di te, oggi molti mi aiutano. C’era una signora che mi attaccava spesso, finché non ha avuto un figlio arrestato: ha dovuto toccare con mano per capire che anche andare a trovare i detenuti è un’opera di misericordia come dice Gesù nel Vangelo”.
Spesso attorno ai carcerati ci sono altre solitudini di innocenti, famiglie con figli piccoli rimasti senza reddito, a un cappellano capita di occuparsi anche di loro?
“Sì, spesso sei un punto di riferimento, un sostegno morale anche per loro. Capita anche di dover lavorare per un sostegno materiale. Spesso i reati maturano in contesti di drammatica povertà, capita di incontrare famiglie che davvero non hanno niente. In quei casi ho cercato aiuto alla Caritas, ma anche organizzato campi scuola per i bambini, perché spesso la povertà non è solo di denari. Se un bambino cresce non imparando altro che degrado è facile che segua la strada segnata”.
Qual è la difficoltà maggiore da cappellano?
“Sapere che troppe cose non dipendono da noi, che la nostra buona volontà ha dei limiti che vengono dal contesto: tu puoi ben convincere uno che ha sbagliato a cambiare vita, ma che succede se poi quando esce non ha mezza possibilità di trovare un lavoro onesto e un tetto sulla testa?”
Che cosa rispondere a chi le chiede: ma chi te lo fa fare?
“Premesso che è una domanda che mi arriva spesso e che mi fa soffrire, rispondo “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, siamo tutti figli dello stesso Dio e tutti possiamo sbagliare. Il mio compito di cappellano è entrare nella storia dell’altro senza giudicarlo”.