Pubblichiamo l'intervento di monsignor Luciano Monari, Ancora su Caino. Una postilla a Saramago, apparso nel numero 1 del 2014 di Vita e Pensiero, che apre le celebrazioni per il centenario della rivista.
Secondo il premio Nobel per la letteratura José Saramago (cfr. «Vita e Pensiero» 5/2013, pp. 65-79), la Lettera agli Ebrei dice uno “sproposito” quando recita: «Per fede Abele offrì a Dio un sacrifi cio migliore di quello di Caino e in base a esso fu dichiarato giusto» (Eb 11,4). Secondo lui, si tratta di cose «impossibili ad accettarsi, come affermare che Dio considerò Abele suo amico. Cosa significa questo? Stiamo giocando con le parole? Da dove ricaviamo questa informazione? Chi la registrò? Quando? Come? Dove? Abele e Caino sacrificarono a Dio quel che avevano. Anche il povero Caino, se mi è permesso di chiamare “povero” un assassino, offrì ciò che aveva. Dio disprezzò il suo sacrificio. Tutto prende inizio da qui: nacque lì la gelosia, il rancore, l’incomprensione, una volta che Caino non capisce perché Dio lo rifiuti. È uno sproposito logico, che mi porta a dire che questo testo farebbe la sua bella figura in un libro degli spropositi».
È proprio così: secondo il testo biblico Caino, che era agricoltore, «presentò frutti del suolo come offerta al Signore», mentre Abele, che era pastore, «presentò primogeniti del suo gregge e il loro grasso» (Gen 4,3-4). Il testo della Genesi continua: «Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino con la sua offerta». Siamo chiaramente di fronte a un paradosso: la differenza delle offerte dipende dalle diverse attività degli offerenti (coltivatore di campi l’uno e allevatore di greggi l’altro); la differenza di gradimento dipende da una volontà non motivata di Dio.
Naturalmente il lettore può riempire i vuoti del testo immaginando che Abele abbia offerto con un cuore puro il meglio del gregge e che Caino abbia offerto con cuore impuro gli scarti dei frutti della terra; ma chi pensa questo lo fa a suo rischio e pericolo, perché il testo non lo giustifica in nessun modo. Un Dio capriccioso, allora? Una volontà che può affermarsi senza bisogno di giustificarsi? Del tipo: «Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare!». Eppure Pietro, di fronte al centurione Cornelio, proclama che «Dio non fa preferenza di persone» (At 10,34). E allora?
"Caino e Abele" di Palma il Giovane (1615-1620). In alto: "Caino uccide Abele" di Tintoretto (1550-1553).
Probabilmente l’autore del nostro testo ha davanti agli occhi il culto
che viene offerto nel tempio di Gerusalemme. Qui a Dio vengono
presentate le primizie dei frutti della terra (Dt 26,1-11) e vengono
offerti sacrifici di animali. Ma sono i sacrifici di animali a
costituire gli autentici sacrifici graditi a Dio, in grado di espiare i
peccati, di operare la redenzione, la riconciliazione, il riscatto del
popolo. Secondo il Levitico è il sangue che espia perché il sangue è la
vita (cfr. Lv 17,11); e la Lettera agli Ebrei fa eco affermando che
«senza spargimento di sangue non esiste perdono» (Eb 9,22). Si capisce
allora che il nostro autore ritenga l’offerta di un agnello più gradita a
Dio dell’offerta di una cesta di primizie.
Si può anche immaginare che
dietro al nostro racconto stia la profonda crisi che ha rappresentato
nella storia dell’umanità l’inizio della coltivazione della terra (la
rivoluzione neolitica). Ma tutte queste spiegazioni rimangono
insufficienti: perché Dio non abbia gradito anche il sacrificio di Caino
non è spiegabile.
E sarà bene cercare di non spiegarlo, perché una spiegazione logica
rovinerebbe l’efficacia del racconto. Supponiamo che Caino abbia offerto
doni con una modalità sbagliata; in questo caso la risposta di Dio
sarebbe del tutto logica; Caino dovrebbe attribuire a se stesso l’errore
e dovrebbe quindi starsene tranquillo dicendo: «Me lo sono meritato!
Non lo farò più; la prossima volta sarò più bravo». Una banalità; punto.
Ma il racconto, per fortuna, funziona in modo diverso. Caino non può
attribuire a se stesso la colpa del rifiuto di Dio e proprio questo
fatto produce la tensione che dà avvio al dramma. Agli occhi di Caino il
mondo è ingiusto; quello che gli è capitato non è accettabile; deve
fare qualcosa per raddrizzarlo. Caino potrebbe prendersela con Dio, ma
questo sarebbe assolutamente inutile. Caino sa che Dio è Dio e che
davanti a Dio l’uomo non può pretendere niente; contestare Dio non
produrrebbe nulla di buono. E allora? Si noti: il problema non nasce
solo dal fatto che Dio non ha accettato l’offerta di Caino; in questo
caso Caino avrebbe potuto dire: «Dovevo saperlo: tra Dio e me c’è una
distanza infinita; capisco che a Dio non interessino i frutti della mia
terra; mica ne ha bisogno!». La tensione vera nasce dal confronto:
perché Abele sì e io no? Perché i suoi agnelli sì e il mio grano no?
Questo è il vero problema, antico e moderno insieme.
Il mondo è pieno di
persone che, facendo il confronto con gli altri, si sentono trattate
ingiustamente dalla vita, dal mondo, da Dio: perché sono povere o
malate, o deboli, o emarginate, o rifiutate… Queste persone sono ben
lungi dal pensare che la loro condizione di disgrazia abbia una
spiegazione logica; se la spiegazione logica ci fosse, non ci sarebbe il
dramma. Ma proprio perché la spiegazione logica non c’è (o, se c’è, noi
non riusciamo a vederla), per questo ci si ribella e si contesta.
Si contesta… chi? Dio? «Se ne ride chi abita i cieli, il Signore si fa
beffe di loro» (Sal 2,4). L’unica reazione che può dare davvero
soddisfazione sembra essere l’eliminazione dell’altro. Certo, non gli
posso attribuire una colpa morale, ma la sua esistenza, così com’è (cioè
come esistenza fortunata, più fortunata della mia), non ha motivazione
sufficiente. Se lo elimino, non rendo migliore la mia condizione, ma
cancello il confronto e quindi cancello lo scandalo.
Nel dramma di Caino
c’è il nostro stesso dramma, quello che ci porta a reagire a un mondo
che non è logico come dovrebbe essere. Ha ragione Saramago quando parla
di uno sproposito; ma bisogna riconoscere che è proprio questo
sproposito che fa del testo biblico uno specchio della nostra
condizione, dei nostri risentimenti, della nostra aggressività. Se
togliamo lo sproposito, il racconto diventa lineare e banale insieme; il
fratricidio diventa una pura espressione di violenza che non ha nulla
da dirci.
A questo punto possiamo tentare di capire anche la Lettera agli Ebrei:
«Per fede, Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e
in base a essa fu dichiarato giusto, avendo Dio attestato di gradire i
suoi doni; per essa, benché morto, parla ancora» (Eb 11,4).
L’autore sta
scrivendo una “storia della fede” attraverso una galleria di
protagonisti della narrazione biblica. All’inizio di questa galleria
l’autore ha posto un principio: «La fede è fondamento di ciò che si
spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati
sono stati approvati da Dio» (Eb 11,1-2). Dio è, per definizione,
“altro” dal mondo. Il mondo è l’insieme di tutte le cose che si possono
vedere, ascoltare, toccare, immaginare… Dio sta oltre il mondo e le
cose; non è quindi “visibile” e nemmeno “immaginabile”. Similmente le
promesse di Dio si collocano nel futuro, e in un futuro che non sta
dentro la storia, che non è quindi estrapolabile dal corso degli eventi
attuali.
L’unico possibile rapporto con Dio e la sua promessa avviene
attraverso la fede che apre gli occhi verso ciò (Colui) che è invisibile
e apre il desiderio verso ciò (Colui) che non è afferrabile.
Prendiamo allora l’esperienza di Abele che offre a Dio un sacrificio del
suo gregge. Come può Abele avere fatto un sacrificio effettivamente
gradito a Dio? Dobbiamo dire che tutto dipendeva dall’oggetto
dell’offerta? Dio ha gradito il sacrificio di Abele perché Abele ha
offerto un agnello? No, dice la Lettera agli Ebrei: ciò che rende
gradito a Dio un sacrificio è la fede, cioè l’apertura del cuore a Dio
invisibile, la trascendenza del cuore rispetto al mondo delle cose
visibili. Ciò che rende gradito un sacrificio è il fatto che il cuore
dell’uomo compia una
scelta che trascende il mondo (e i vantaggi del mondo) per rischiare il
dono gratuito rivolto a Colui che non vedo e che non controllo – che in
nessun modo potrei vedere o controllare.
E Caino? Perché il sacrificio di Abele è definito «migliore» di quello
di Caino? Va notato, anzitutto che il nostro autore non giudica
direttamente il sacrificio di Caino; non dice che questo sacrificio non
sia stato accettato da Dio. Dice solo che il sacrificio di Abele era
«migliore». Non avrebbe potuto parlare diversamente, dal momento che
aveva posto alla base un principio del tipo: la fede, e solo la fede,
rende accetti a Dio perché la fede, e solo la fede, pone in relazione
con ciò (Colui) che non è mondo. Dove c’è fede, non è possibile che non
ci sia accettazione da parte di Dio, perché la fede è esattamente
l’effetto suscitato nell’uomo da Dio che gli si è fatto vicino. La fede
non è un salire dell’uomo verso Dio (che potrebbe riuscire o non
riuscire, secondo i casi); è invece l’accoglienza nell’uomo del cammino
di Dio che scende verso di lui; è ossequio che la creatura rende al
creatore quando il creatore le si fa vicino.
L’ultimo interrogativo è la definizione di Abele come amico di Dio. In
realtà, non so dove Saramago abbia trovato questa espressione. Per
quanto mi risulta, l’espressione “amico di Dio” è riferita nella Bibbia
ad Abramo (Is 41,8) e a Mosè (Es 33,11), non ad Abele; ma la questione è
secondaria. In fondo, si legge nella Bibbia che la sapienza, entrando
nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti (cfr. Sap 7,27). Si
chiede Saramago: «Cosa vuol dire? Giochiamo con le parole?». Forse sì,
ma certo stiamo giocando un gioco serio. L’amicizia indica la profondità
di un rapporto che coinvolge non solo dimensioni esterne (come
l’obbedienza a un comando), ma anche mozioni interne (i sentimenti, i
desideri); che produce una vera condivisione di vita.
Ora, se Dio è «più
intimo a me di me stesso», se è possibile vivere un rapporto di
“alleanza” con Dio, se Dio entra in relazione con l’uomo attraverso la
sua Parola e può donare all’uomo il suo Spirito, perché non chiamare
tutto questo “amicizia”? C’è forse una parola migliore? Rimane da
chiedersi: da dove so che Dio mi è amico? Bastano le parole della
rivelazione universale, della Bibbia? Credo che la risposta più
convincente sia l’amore che la relazione con Dio suscita e fa crescere
in me. Certo, può esserci in me una forma illusoria di risposta
all’amicizia e all’amore (e questa forma illusoria si riconosce dalle
sue deformazioni: superstizione, aggressività, settarismo…); ma quando
nasce e si sviluppa un’autentica capacità di amore – verso Dio, se
stessi, gli altri, la vita, il futuro… – tutto questo testimonia la
verità dell’amore di Dio nell’uomo, quindi dell’amicizia di Dio per
l’uomo.
Stiamo giocando con le parole perché l’amicizia (che normalmente
è tra uguali) viene proiettata a indicare il rapporto con ciò (Colui)
che è infinitamente oltre; ma è un gioco serio, perché rende più umani e
provoca a un amore crescente verso il mondo.