La lettera apostolica Patris corde, incentrata sulla figura di san Giuseppe, è stata un grande dono di Francesco alla Chiesa e alla società tutta. Mettendo al centro dell’attenzione la figura di san Giuseppe, una delle figure più “silenziose” del Vangelo, questo breve ma intenso documento ci ha consentito di ripensare alcuni valori troppo spesso oggi dimenticati o banalizzati, su cui la paternità ha una propria specificità.
In particolare la vicenda di san Giuseppe svela che la paternità, nel confronto relazionale con la maternità, ha forse la possibilità di essere più trasparente di una dimensione essenziale della genitorialità, che è il suo trascendere i vincoli di sangue. Diventare padri è, infatti, un percorso più sociale e meno “biologico” del diventare madri. Ma proprio per questo, la paternità testimonia una responsabilità genitoriale capace di farsi padre e madre anche di chi non è stato generato dalla propria carne. «Padri non si nasce, lo si diventa», leggiamo nella Patris corde. «E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti. Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre».
Si apre, quindi, una nuova responsabilità paterna verso la genitorialità diffusa, accogliente, come avviene con l’adozione, in cui si diventa genitori pienamente, senza diminuzioni, pur essendo privi del legame biologico con il figlio, assumendosi socialmente tutti i compiti di cura: accudimento, conferma dell’identità, appartenenza. Anche l’affidamento di un bambino è una concreta paternità sociale, nel suo essere una genitorialità “a termine”, offerta a un figlio che rimane talmente “altro da me” da dover ritornare alla propria famiglia di origine.
Tutte forme di paternità (e maternità) dove «essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. [...] La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. [...] Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto».
È pur vero che poi, nella quotidianità della vita familiare, il codice materno ritorna decisivo, anche in queste situazioni. Ma questo non esclude la necessaria centralità del codice “paterno” nell’allargare la capacità genitoriale della coppia verso l’esterno, verso la società. Anzi, proprio la fecondità di questo inevitabile intreccio tra codici materni e paterni, tra sociale e biologico, svela e conferma che l’identità di padre e di madre si costruiscono insieme, dentro la costruzione della relazione di coppia, nel gioco della differenza tra maschile e femminile.
* Direttore del Cisf (Centro internazionale studi famiglia)