Il giovane camilliano padre Bernard Kinvi.
Hanno scelto di votarsi interamente
a Dio. E al prossimo. Hanno pronunciato un sì definitivo e senza condizioni che li
ha portati a intraprendere strade imprevedibili, impervie, spesso
rischiose. Ma sempre e comunque strade d'amore. Nell'ambito
dell'Incontro mondiale per i giovani consacrati (Roma, 15-19
settembre) si è svolta in piazza San Pietro una serata di
riflessione e insieme di festa. Protagoniste le storie di ragazze e
ragazzi consacrati: sacerdoti, suore, frati di diversi ordini e
congregazioni religiose, arrivati per l'occasione da ogni angolo del
pianeta. Sono, in apparenza, giovani come tanti, ma le loro
testimonianze raccontano scelte controcorrente, modellate
sull'esempio del Vangelo. Emblematico il titolo dell'incontro:
“Svegliate il mondo”. Questo l'invito che papa Francesco ha
voluto rivolgere proprio in occasione dell'Anno della vita consacrata
(che si è aperto nel 2014 con l'inizio dell'avvento e si concluderà
il prossimo 2 febbraio). Tante storie, diversissime eppure unite da
uno sguardo comune, hanno preso vita all'ombra della basilica,
intervallate da momenti di musica e danza.
Essere suora a Kabul, Afganistan, è
una sfida senza fine. «Il nostro
è un apostolato del silenzio – ha raccontato suor Annie
Puthemparambil, cottolenghina, originaria del Kerala (India) –
Quando usciamo dobbiamo sempre spostarci in gruppo e il rischio di
attentati è elevato. Non ci è permesso di indossare abiti da suore,
né di parlare del Vangelo o anche solo di nominarlo. Tutto questo
però non ci impedisce di far percepire ai fratelli che incontriamo
l'amore di Gesù. Grazie a un progetto che riunisce varie
congregazioni ci prendiamo cura dei bambini con disabilità psichica.
E a volte le famiglie si stupiscono: “Solo voi – ci dicono –
siete attente ai nostri figli”».
In
un momento drammatico per le relazioni interreligiose, in vaste aree
dell'Africa e dell'Asia le donne e gli uomini consacrati rischiano
quotidianamente la vita. Padre Bernard Kinvi, camilliano, dirige un
convento e un ospedale nel Nord-Ovest della Repubblica Centrafricana, segnata da una sanguinosa guerra civile. E' a Bossemptélé, un agglomerato di povere capanne. In questi anni ha accolto
nelle sue strutture migliaia di profughi e malati, la maggior parte
dei quali musulmani, al punto che l'organizzazione non governativa
Human Rights Watch ha deciso di assegnargli un premio. Ma c'è anche
chi vorrebbe vederlo morto: «Gli esponenti delle varie fazioni in
conflitto non accettano che io dia ricovero ai loro nemici: ecco
perché spesso ricevo minacce. Un giorno però ho accolto nel mio
ospedale un capo dei ribelli, gravemente ferito. Era proprio tra
quelli che volevano uccidermi. Ha ricevuto le cure necessarie e, una
volta ristabilito, è diventato un uomo diverso. Tutto questo per me
significa incontrare Cristo negli ultimi e nei malati».
Anche Adrian
Saouadogo, originario del Burkina Faso, della congregazione dei Padri
Bianchi, ha vissuto sulla sua pelle i contrasti interreligiosi. Nato
in una famiglia islamica, a 21 anni si è convertito al
cristianesimo, a seguito di un incontro apparentemente incredibile,
che tuttavia lui racconta con grande naturalezza: «Un giorno, mentre
tornavo a casa, dopo una lezione di arti marziali, ho sentito
qualcuno che mi chiamava. Era un uomo dalle vesti splendenti. Mi ci è
voluto del tempo per capire chi fosse, ma alla fine ho compreso: era
Gesù in persona. Naturalmente per la mia famiglia la conversione è
stata uno shock, anche perché, in quanto figlio maggiore, avrei
dovuto educare all'islam i miei fratelli. Per 18 anni sono stato
allontanato da casa e alcuni esponenti della comunità musulmano
avevano addirittura detto a mio padre di uccidermi. Ma oggi –
spiega il sacerdote, che attualmente lavora in un istituto di
formazione islamo-cristiana – qualcosa è cambiato, grazie al
potere della riconciliazione. Recentemente mio padre mi ha detto: “Di
questa storia non capisco quasi nulla, ma capisco che è una storia
guidata dall'alto”».
Esperienze
toccanti, a tratti drammatiche benché intessute di speranza, ma
anche storie più “leggere”, o comunque maturate in un ben
diverso contesto sociale. Una parte della serata è stata dedicata a
quei consacrati che hanno trovato una sintesi fra fede e arte,
scoprendo nella ricerca della bellezza una strada verso Dio. Se
parliamo di canto e vocazione, al pubblico italiano viene subito in
mente suor Cristina Scuccia, divenuta popolare dopo la sua vittoria
al talent show “The voice of Italy”. A proposito del successo, la
giovane suora orsolina ha voluto sottolineare alcuni punti fermi:
«Non canto mai per me stessa. La mia voce è solo un modo per far
brillare la grande luce che sento dentro. E in tutto questo il mio
fondamento è la congregazione: quando tremo e mi sento piccola ho
bisogno del calore di una famiglia». Come lei, molti religiosi hanno
scelto la via della musica. Frate Alessandro Brustenghi, francescano,
splendida voce da tenore, ha inciso un cd per la prestigiosa
etichetta Decca, esperienza che gli ha fatto fare letteralmente il
giro del mondo, «anche se io – racconta – continuo ad anelare
alla vita semplice di un piccolo convento».
Davvero singolare, infine,
la storia di Anna Nobili, cubista nelle discoteche della riviera
romagnola, poi suora nell'ordine delle Operaie della Santa Casa di
Nazareth. «Se quando avevo quindici anni mi avessero raccontato il
mio futuro probabilmente sarei scoppiata a ridere. Non conoscevo
Cristo e sentivo dentro solo una grande solitudine». Poi l'incontro
capace di trasfigurare la vita. «Appena entrata in convento pensavo
che il ballo fosse una cosa sporca e volevo distaccarmene. Invece,
nel tempo, le consorelle mi hanno aiutato a capire quale grande dono
avessi con me. Oggi vivo e insegno la danza come profondo segno di
amore verso Gesù».