Pari ha 58 anni, anche se ne dimostra molti di più. È
vedova ed è nata e cresciuta nel Distretto di Bara (Khyber Agency), nelle Fata (Federal Adminisistrated Tribal Areas), in territorio pakistano al confine con l’Afghanistan. A causa
delle operazioni militari che il Governo sta mettendo in atto per combattere le milizie dei talebani ha dovuto fuggire e abbandonare il suo villaggio per
rifugiarsi in un’area rurale di Peshawar.
«La mia vita era normale prima di essere costretta a scappare. Avevamo un piccolo negozio che vendeva poche cose ma era
sufficiente a mantenere tutta la famiglia. Eravamo felici. Poi, tre anni fa,
quando le milizie extragovernative sono entrate e hanno preso il potere, tutto
è cambiato. Le condizioni di vita sono peggiorate improvvisamente e mio marito
è morto a causa di una malattia. Mio figlio è stato catturato e brutalmente
ucciso dai miliziani. Oltre a loro abbiamo perso anche quel poco che avevamo
per vivere»,
racconta la donna. Ora Pari vive con la figlia, le nipotine e il genero in una
misera stanza in affitto. Le condizioni igieniche sono pessime. A dare loro un minimo conforto solo le poche cose raccolto negli istanti prima di scappare.
«Quella di Pari e’ solo una delle migliaia di storie,
tutte molto simili, dei rifugiati in fuga dai bombardamenti che il governo sta
operando nelle Fata per mettere fine al conflitto», spiega Piero Fiore,
rappresentante del Cesvi in Pakistan. Stando agli ultimi dati divulgati dall’Alto
Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati Unhcr sarebbero oltre 52.000
le famiglie profughe da ottobre, mese in cui sono iniziate le operazioni. Nei
prossimi mesi si prevede che diventeranno oltre 65.000, mezzo milione di
persone di cui almeno un terzo bambini e ragazzi al di sotto dei 15 anni. I nostri ragazzi non possono andare a scuola e con
quello che guadagna mio genero, lavorando a giornata, riusciamo a malapena a
pagare l’affitto di casa, circa 50 euro al mese. Speriamo che la nostra vita possa
ricominciare presto. Quello che nessuno ci restituirà mai è l’affetto dei
nostri cari»,
prosegue sempre Pari.
All’interno del Jalozai Camp vive da tre mesi anche Amina
Bibi. Ha abbandonato la sua casa a
causa delle operazioni militari in corso nella Khyber Agency e si occupa da
sola delle figlie, poiché il marito, dopo essersi avvicinato alla droga, non è
più in grado di lavorare. «È lei a dover sostenere la famiglia. Riceve
assistenza dalle organizzazioni umanitarie ma non le basta. Cerca di ottenere
lavori occasionali fuori dal campo ma, essendo donna, ha diversi problemi a spostarsi
all’esterno», aggiunge Fiore. La presenza massiccia di rifugiati nella zona, oltre alla
mancanza di cibo e lavoro, sta creando anche gravi problemi di stabilità e di
ordine pubblico. Una problematica che sta assumendo proporzioni preoccupanti in
un contesto dove la criminalità era, fino a qualche tempo fa, un fenomeno molto
limitato. Queste le parole di Aine Faine, coordinatrice del Pakistan
Humanitarian Forum che riunisce 47 organizzazioni umanitarie operanti in
Pakistan e di cui Cesvi è membro dal 2009: «Le stime condotte al di fuori
dal campo profughi nei Distretti di Nowsheera, Peshawar e Khoat rivelano dati
allarmanti. Oltre la metà delle famiglie rifugiate non riesce a registrarsi e
questo le esclude dalla possibilità di ricevere aiuti di ogni genere». Le organizzazioni del Pakistan Humanitarian si augurano
che questa situazione venga resa pubblica anche in Occidente. Una risposta
umanitaria consentirà di assicurare almeno i bisogni più urgenti di queste
persone.