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sabato 22 marzo 2025
 
 

Conclave, le voci della Terra Santa

12/03/2013  Il patriarca Twal, il custode Pizzaballa e padre Faltas analizzano l'elezione del nuovo Pontefice secondo i problemi della Terra Santa.

Sua Beatitudine monsignor Fouad Twal, patriarca latino di Gerusalemme (Reuters).
Sua Beatitudine monsignor Fouad Twal, patriarca latino di Gerusalemme (Reuters).

E per la pace? "Preghiamo, preghiamo, preghiamo". E' la ricetta di monsignor Fouad Twal, Patriarca Latino di Gerusalemme, la cui lectio magistralis ha fatto da “prologo spirituale”  alla Settimana dell'Artigianato, che si aprirà ufficialmente domenica 17, e che tutti gli anni la Confartigianato vicentina organizza, in occasione della festa di san Giuseppe.

"I muri che in Terra Santa dividono famiglie, case, parrocchie", ha continuato l'alto prelato, "sono l'espressione visiva dei muri nei cuori degli uomini. Per arrivare alla pace, abbiamo bisogno della conversione dei cuori di tutti, più che mai in questo periodo di Quaresima».

- Il premier Benyamin Netanyahu ha delegato Tzipi Livni ai rapporti con i palestinesi. A fine mese, il presidente Obama sarà in visita a Gerusalemme, Ramallah e Amman. Siete speranzosi nella ripresa del processo di pace?

"Noi vorremmo la pace per tutti, una volta per sempre. Siamo stanchi delle chiacchiere dei politici,  siamo stanchi del termine “processo” di pace. Lo dissi una volta all'onorevole D'Alema, bisogna andare direttamente alla pace, senza il processo, perché, altrimenti, come è accaduto finora, non si arriverà a nulla. La vogliamo fare questa pace di cui tutti hanno bisogno? Facciamola per i nostri bambini, per dar loro un futuro, per dire loro che potranno avere una vita normale. La parte palestinese è la più debole, quella israeliana la più forte. Tocca al più forte essere più intelligente e più responsabile, cedere un po', e aiutare. Ma tutti sono chiamati a fare sacrifici per poter godere insieme della pace. E' impensabile pensare a una pace per un popolo solo, senza l'altro, è impensabile imporre la pace con la forza, con i muri, con le restrizioni. La pace non è contratto, non è solo assenza di guerra; dobbiamo tutti poter vivere con serenità, con fiducia reciproca, con fiducia nel futuro. La pace è lo stato naturale dell'uomo, che vive in armonia con sé stesso e con il prossimo. E' talmente desiderabile da noi, che è diventata un saluto, shalom. Dalla pace, poi, discendono, la giustizia, la solidarietà, la condivisione. Io spero che non mancheranno le buone volontà per fare i giusti passi".  

- Perché proprio nei Luoghi dov'è nato Gesù, la violenza non si ferma?

"La nostra è la Chiesa del Calvario, dove la via Crucis non sembra avere fine. E' triste vedere soffrire i figli di questa terra benedetta. E' vero, siamo Chiesa della croce, ma anche Chiesa della tomba vuota, della resurrezione, della speranza. Solo Gesù, che è passato attraverso le tribolazioni, può portare la salvezza".  

- Lei ha “bacchettato” i giornalisti, dicendo che da quando è scoppiata la guerra in Siria, non si occupano più dei problemi della Terra Santa.

"L'attenzione mondiale oggi è rivolta alla Siria. E su di noi è calato il silenzio. Il muro, l'occupazione, le colonie, chi ne parla più? Si dice sempre Territori Occupat”, ma non si dice mai da chi. Mica sono occupati dagli angeli, sono occupati da Israele, eppure i media se ne dimenticano. A Gerusalemme vengono pellegrini da tutto il mondo, ma il parroco di Ramallah non può venire a pregare nei Luoghi Santi. Provo pena perché c'è tutta una generazione di giovani cristiani, nati e cresciuti in Palestina, che non sanno dove si trova il Santo Sepolcro perché non hanno mai avuto il permesso di venire a Gerusalemme. Abbiamo fatto uno studio sui manuali di catechismo ebraico e islamico. Volevamo sapere che cosa gli uni insegnano ai propri ragazzi sugli altri, e viceversa. Una catastrofe. Come si fa a “rompere i muri”, se fin dalla scuola si insegna ai propri figli a odiare i figli degli altri? La Chiesa cattolica è l'unica ad avere il coraggio di dire la verità, e per questo qualche volta qualcuno è scontento di noi".  

- Non possiamo però non parlare della Siria...

"Come Consiglio dei Patriarchi Cattolici d'Oriente (oltre al Patriarca Latino di Gerusalemme, ve ne fanno parte i Patriarchi di Alessandria dei copti, di Antiochia dei maroniti, di Antiochia dei melchiti, di Antiochia dei siri, di Babilonia dei caldei, di Cilicia degli armeni, n.d.r) a una sola voce diciamo che non siamo d'accordo con quello che sta succedendo. Certo, la Siria ha bisogno di riforme, ma non si possono fare le riforme con un massacro. Non voglio difendere il regime – anche se va detto che Assad ha sempre permesso ai cristiani di avere le loro case, di lavorare, di costruire le chiese - tuttavia questo non è il modo. Come si fa ad avviare un cambiamento senza avere idea di che cosa succederà dopo? Ci siamo già passati con l'Iraq. Ieri mezzo milione di rifugiati iracheni, oggi mezzo milione di rifugiati siriani. Un dramma umano intollerabile».  

- Un suo ricordo personale di papa Benedetto XVI.

"L'ho conosciuto bene perché quando è venuto in Giordania e Palestina, l'ho accolto e accompagnato. Siamo stati insieme non solo nei momenti ufficiali, ma anche privatamente. E' un uomo di pace, di preghiera, di dialogo con tutti, con gli ebrei e con i musulmani. La sua scelta di dimettersi è stata uno shock per la Chiesa. Ma sempre da una scossa nasce qualcosa di più bello, di più vivo. Un esempio anche per quei politici che si aggrappano alla sedia e non la mollano mai. Per me è stato un Papa grande, e con questo gesto è diventato ancora più grande".  

- Quali sono le aspettative delle Chiese medio-orientali rispetto al futuro pontefice.

"C'è una linea chiara della Santa Sede per la nostra terra: pace e giustizia per i palestinesi. E questa linea continuerà con il nuovo Papa. Io sono sicuro che tutti i “papabili” amano la Terra Santa, tutti sono venuti pellegrini, sono passati da me al Patriarcato, anche per condividere un pranzo. Ci troviamo in famiglia. Chiunque venga eletto, sarà certamente un uomo che ci ama e che penserà alla questione della pace".

Romina Gobbo

Padre Pierluigi Pizzaballa, custode di Terra Santa (Reuters).
Padre Pierluigi Pizzaballa, custode di Terra Santa (Reuters).

«Qui, forse più che altrove, lo sconcerto per la notizia delle dimissioni di papa Benedetto XVI è stato grande. Perché nel mondo cristiano orientale l'istituto delle dimissioni non è contemplato, il patriarcato è a vita. Tuttavia, dopo un primo momento di sorpresa, tutti si sono resi conto della grandezza, dell'umiltà di questo gesto». Padre Pierbattista Pizzaballa, francescano, Custode di Terra Santa dal 2004, riassume così le reazioni “a caldo” nella Terra di Gesù, dopo questo evento di portata storica.


- Padre, come stanno i cristiani di Terra Santa?

«Se con Terra Santa, intendiamo Israele e Palestina, direi che la situazione non è rosea, ma rispetto al resto del Medio Oriente non possono lamentarsi. Diciamo che è un momento più sereno di altri».

- Di tutta la regione mediorientale, la crisi siriana è quella che spaventa di più. Una suora è stata uccisa da un missile, due sacerdoti rapiti sulla strada da Aleppo a Damasco. Sembra che i cristiani siano particolarmente presi di mira.

«In Siria la situazione è catastrofica, e durerà ancora a lungo, con conseguenze molto gravi. I cristiani, come tutte le minoranze, soffrono particolarmente. Ma c'è una grande confusione. L'opposizione è molto frantumata, c'è quella moderata, c'è quella islamica, quella fanatica, oltranzista, tutto dipende dalle mani in cui cadi. E poi ci sono le mafie, il mercato nero, chi cerca di approfittare. Non è facile distinguere. Per quanto riguarda la suora, è stata colpita assieme ad altre sedici persone, questo esclude che lei fosse il bersaglio. Certo, in alcune zone, in alcuni villaggi, ci sono persone che prendono di mira i cristiani, ma non ritengo che sia qualcosa di sistematico».

- Come sono i rapporti con i musulmani, le cui posizioni un po' in tutto il Medio Oriente si stanno radicalizzando?

«La partita con i musulmani c'è e bisogna giocarla. I musulmani non sono tutti oltranzisti, fanatici, ma ci sono pure quelli, penso ai salafiti per esempio. Di fronte alle situazioni difficili, i cristiani, oltre a denunciare, hanno due possibilità: o andarsene, e questa, secondo me, non è un'opzione, o restare e prendere atto dei cambiamenti che stanno avvenendo. Bisogna dialogare con la parte moderata. Lamentarsi, gridare, serve fino a un certo punto, va bene denunciare, ma poi bisogna essere molto concreti. Qui siamo, qui dobbiamo restare e in questo contesto dobbiamo lavorare. Serve il dialogo fra i credenti, ma quelli veri. Un dialogo che si sviluppi a partire dai bisogni comuni: il lavoro è un problema di tutti, la guerra è un problema di tutti, e poi bisogna fare fronte comune sui temi della cittadinanza, dei diritti umani, della vita, della tolleranza, della libertà».

- E i rapporti con gli ebrei? Anche loro stanno esprimendo una religiosità sempre più ortodossa.

«Anche qui non bisogna generalizzare. Dalle recenti elezioni, ci si aspettava uno spostamento a destra radicale. Invece, la destra ha vinto, ma di poco. La società israeliana è molto articolata, molto più complessa di quello che appare. I problemi ci sono, ma il dialogo c'è, va creato il giusto contesto».

- Come Ordine dei Frati Minori siete in Terra Santa dal 1200. Che cosa significa essere custode del luogo da dove tutto è cominciato?  

«Quando san Francesco arrivò in Terra Santa, non c'erano santuari degni di questo nome. I francescani sono passati dal Cenacolo, acquistato per loro dai Reali di Napoli nel 1330, alla cura di cinquanta Santuari, molti dei quali affidati a loro dal Patriarcato di Gerusalemme e che si trovano, oltre che in Israele e Palestina, in Giordania e Siria. Custodire, quindi, è un “talento”. Custodire è riscattare i Luoghi santi, restaurarli, studiarli, e soprattutto in quest’ultimo secolo, ricostruirli, non solo per dovere di manutenzione, ma anche per ridare a ognuno la propria storia, valorizzandone i resti archeologici, esaltandone la memoria evangelica che contengono. La fede degli antichi ha passato un testimone fatto di emozioni e di ricordi, di protezione e di nostalgia, che ha attraversato indenne guerre e occupazioni, scorribande di predoni e lotte fra clan, perché più forte di tutto è stato l’amore per il Figlio dell’Uomo, che è nato qui, in questa Terra che è santa».

Romina Gobbo

Padre Ibrahim Faltas
Padre Ibrahim Faltas

Campane a distesa e preghiera. Così la sera del 28 febbraio a Nazareth, Betlemme, Gerusalemme, là dove tutto ha avuto inizio. Padre Ibrahim Faltas, frate francescano, egiziano d’origine, oggi è economo della Custodia di Terra Santa, responsabile dello Status quo nella Basilica della Natività, racconta come è stato vissuta la fine del pontificato di Benedetto XVI e come si stanno vivendo questi giorni di Sede vacante, verso il Conclave. Undici anni fa, durante la seconda intifada, fu tra i protagonisti dell’episodio dell’assedio alla Basilica della Natività di Betlemme, che durò 39 giorni e costò 8 vittime e 27 feriti. Ma che si concluse con la liberazione dei 240 palestinesi armati che si erano asserragliati nella chiesa per sfuggire al fuoco israeliano. Il francescano è stato insignito di numerosi riconoscimenti per l’impegno al dialogo, alla solidarietà, come costruttore di pace e autore di diversi interventi a livello nazionale e internazionale.

Padre Faltas, allora, fu uno dei principali mediatori che consentirono la conclusione pacifica dell’assedio, senza ulteriori spargimenti di sangue. In questi giorni è in Italia per presentare il libro “Dall’assedio della Natività all’assedio della città”, pubblicato a dieci anni da quei fatti, ma anche a dieci anni dalla costruzione del Muro che divide Betlemme da Gerusalemme, i palestinesi dagli israeliani.

«Quando l’assedio è terminato e siamo usciti vivi dalla Basilica», racconta, «eravamo convinti che tutto sarebbe tornato come prima. Invece, abbiamo trovato un muro, alto nove metri, che rende tutt’oggi Betlemme una prigione a cielo aperto. Dieci anni dopo l’assedio della Natività, la situazione rimane difficile. Betlemme sopravvive grazie alla Chiesa e al turismo dei pellegrini, unica fonte di reddito».

– Padre, come si sta vivendo a Betlemme e Gerusalemme questo particolare momento della Chiesa, fra le dimissioni di Benedetto XVI e il Conclave che esprimerà il nuovo Papa?

«Il 28 febbraio scorso, ultimo giorno del papato di Benedetto XVI, alle 21,00 (le 20,00 italiane), in tutte le chiese di Terra Santa si è pregato e sono state celebrate Messe, come ha chiesto il Papa. Abbiamo vissuto con lui quel momento. È stato un grande Papa, era una decisione non facile. È importante anche la sua decisione di dedicare tutto il resto della sua vita alla preghiera, che può aiutare moltissimo la Chiesa. È stata una cosa meravigliosa. Un messaggio grande per tutto il mondo. Speriamo ora nel suo successore. Sono certo che anche il nuovo Papa avrà a cuore la Terra Santa e la questione israelo-palestinese come fu per Giovanni Paolo II e Benedetto XVI».

– Quanti cristiani conta la Palestina?

«Siamo una piccola comunità. In tutto il Paese siamo 50 mila. E la gran parte vive nella provincia di Betlemme: dove ce n’è circa la metà, 25 mila cristiani».

– Quali sono le attese dei cristiani di Palestina, in vista del nuovo Pontificato?

«Quello che tutti aspettiamo, quello che tutti speriamo, quello che tutti vogliamo è che finisca l’occupazione. Che sia pace in questa terra che da oltre 60 anni non ha pace. Questi due popoli, sia quello israeliano che quello palestinese, non ce la fanno più, vogliono la pace. In Terra Santa la situazione non è come la vedete voi: la maggior parte della gente vuole la pace. Sono in pochi a non volerla. Come ha detto Paul Valery, "la guerra è un massacro fra uomini che non si conoscono a vantaggio di uomini che si conoscono ma eviteranno di massacrarsi reciprocamente"».

– Questo accade in tutte le guerre.

«Sì, ma in particolare in Terra Santa. Ogni volta che siamo vicini a un accordo di pace, succede qualcosa che ci fa tornare indietro. Adesso tutti aspettano l’arrivo di Obama, che verrà il 20 e 21 marzo, a visitare Israele e Palestina. Tutti dicono che Obama ha un progetto per riavviare il progetto di pace, e tornare al tavolo dei negoziati. Sono quattro anni che le parti non si incontrano. Se riprendono le trattative ci sarà di nuovo una speranza. C’è ancora un problema: che Netanyahu non ha ancora potuto formare il governo. E questo rende tutto più difficile. Inoltre, i palestinesi sono politicamente divisi: a Gaza governa Hamas, a Ramallah Al Fatah. Ebbene, chi paga la conseguenza di tutta questa situazione? La gente, che non ce la fa più».


– Qual è, secondo lei, il ruolo della comunità cristiana di Terra Santa rispetto alla pace?

«I cristiani in sono sempre stati mediatori di pace fra le due parti. Cerchiamo di fare questo, aiutare a trovare un accordo. Così è stato anche al momento dell’assedio alla Basilica della Natività, il nostro ruolo è stato di mediazione: le due parti in conflitto si parlavano attraverso di noi. E questo è stato il ruolo dei francescani da sempre, non scordiamo che San Francesco, nel 1219, durante la quinta Crociata, raggiunse il campo dei crociati che assediavano Damietta, attraversò la “terra di nessuno” che li dividevano dai musulmani e giunse alla in Egitto alla corte del sultano Melek el-Kamel per chiedere la pace».

– Cosa può fare, invece, la Chiesa di Roma per aiutare a risolvere il conflitto?

«La Chiesa di Roma, è stata ed è sempre vicina a noi. Penso che la Terra Santa sia cara a tutti i cristiani del mondo, è la culla della cristianità. Si può immaginare quanto sia importante per tutti i cristiani e, primo fra tutti, il Papa. Ricordiamo che Giovanni Polo II pronunciò la famosa frase: “La Terra Santa ha bisogno di ponti non di muri”. E anche da Benedetto XVI, al termine della visita del 2009, quando si trovava fra Netanyahu e Peres, disse: “Sono stato veramente felice di questa visita, ma la cosa che mi ha reso davvero triste è stato vedere il Muro". Il Papa, allora, visitò anche il campo profughi di Aida, a Betlemme».

– Anche durante l’assedio alla Natività, Giovanni Polo II vi fu molto vicino.

«Seguì la vicenda giorno per giorno. Anche per questo gli ho dedicato questo libro, uscito in occasione del primo anniversario della sua beatificazione. Allora, nei giorni dell’assedio, mi chiamò personalmente. Ma lo immaginate un Papa che prende il telefono e chiama un povero frate?».

– Che significa stare dietro un Muro?

«Significa essere in una prigione a cielo aperto. Tutti palestinesi che sono dietro al Muro non riescono a uscire, non possono andare neanche a Gerusalemme, che dista soli dieci chilometri. Ho portato giovani di Betlemme a Tokyo, a Roma, a Milano, in tanti posti nel mondo, ma non sono mai stati a Gerusalemme. I bambini nati dal 2002 in poi, non hanno visto altro che il Muro. Betlemme e Gerusalemme, città gemelle, per la prima volta nella storia sono separate».

– Cosa occorre fare per sbloccare questa situazione di stallo nel conflitto?

«Occorre fare pressioni sulle due parti. La comunità internazionale deve intervenire e insistere perché si riapra un tavolo di negoziato. Innanzitutto, gli Stati Uniti. L’Europa non conta come gli Stati Uniti su Israele e Palestina. Il governo americano può ottenere che si riaprano le trattative di pace. Perciò tutti attendono l’arrivo di Obama».

Luciano Scalettari

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