Le modifiche che il Parlamento sta discutendo, rischiano di svuotare la legge 185 del ’90 “Nuove norme sul controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”. Fu una conquista trasversale, della società civile, mondo cattolico in prima fila, venne approvata grazie a una grande mobilitazione dal basso. Lo Stato italiano da allora è vincolato a essere trasparente e a regolamentare il commercio delle armi. La legge, infatti, impegna il governo a non vendere armi a Paesi in cui c’è aperta violazioni dei diritti umani, dittature, regimi autoritari coinvolti in conflitti armati o la cui politica contrasta con i principi dell’articolo 11 della Costituzione. Inoltre c’è l’obbligo di rendere pubbliche le attività degli Istituti di credito, italiani ed esteri, coinvolti nel settore dell’esportazione italiana di armamenti. In questi anni gli stratagemmi per aggirarla sono stati tanti ed evidenti. Anche perché, vulnus lampante, restano esclusi dalla 185 i Paesi con i quali l’Italia ha stabilito degli accordi militari, ben 50 oltre a quelli della Nato. Basti pensare che tra 2002 e 2018, nonostante la 185, abbiamo venduto armi ad Afghanistan, Arabia Saudita, Ciad, Cina, Colombia, Egitto, Israele, Libano, Libia, Mali, Messico, Pakistan, Qatar, Turchia, Ucraina. Subito dopo l'approvazione della 185 don Tonino Bello commentò: «Una legge sul commercio delle armi dovrebbe avere un unico articolo: le armi non si producono, non si vendono e non si comprano».
Ma comunque è grazie a quella legge che sappiamo, per esempio, che «tre istituti di credito, Unicredit, San Paolo e Deutsche bank, coprono l’80 delle esportazioni di armi», spiega padre Alex Zanotelli, direttore di Mosaico di pace. Snocciola cifre e indignazione - «nel mondo l’azienda a partecipazione statale Leonardo è al terzo posto come azienda produttrice di armi, e l’Italia è tra i primi dieci esportatori» - il missionario comboniano che fu tra i promotori della campagna per la 185. «Quella legge non va toccata», ha detto in conferenza stampa, il 4 marzo, unendo la sua voce alle associazioni e movimenti (Acli, Azione Cattolica, Comunità Papa Giovanni XXIII, Focolari Italia, Pax Christi, Agesci, Libera, Federazione Chiese evangeliche) che hanno rivolto un appello a tutti i parlamentari affinché non votino alla Camera le modifiche alla 185/90. Come ha denunciato anche la “Rete italiana pace e disarmo” - «Basta favori ai mercanti di armi» -il rischio è quello di perdere la trasparenza sulle banche che finanziano il settore delle armi e di sottrarre al controllo di Parlamento, società civile e opinione pubblica le informazioni dettagliate sulle esportazioni dei materiali militari svolte dalle aziende. Il testo con le modifiche è stato approvato al Senato, in commissione Esteri e Difesa, poi in aula il 21 febbraio dove sono stati rigettati dal governo tutti gli emendamenti migliorativi, promossi dalla stessa presidente della commissione Stefania Craxi (Fi).
Le modifiche proposte dal governo prevedono due cose in particolare: la prima, spiega Maurizio Simoncelli, dell’Archivio disarmo, è «l’emarginazione dell’ Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, organismo del ministero degli Esteri che verifica la fattibilità di un contratto rispetto ai principi previsti della 185. Con le modifiche sarà un comitato intergovernativo – cioè il presidente del Consiglio, il ministro della difesa, degli esteri, - che si riunirà per deliberare su ogni contratto. Nel caso in cui il governo non desse risposta in merito vige il principio del silenzio –assenso», che sarà probabilmente la prassi ordinaria, visto che si tratta di 3 -4mila contratti l’anno, che richiederebbero di essere discussi dai nostri vertici istituzionali. «L’altra chicca della proposta è l’eliminazione dell’elenco delle banche». Un favore all’industria degli armamenti, che in questi ultimi anni ha conosciuto una crescita esponenziale, «con il volume dell’export che è quasi quintuplicato rispetto al miliardo e mezzo tra il 1990-2005».
«La spesa militare», aggiunge Zanotelli, «è arrivata a 2240 miliardi nel 2022 e, ancora non ufficiale, per il 2023 si aggira sui 2500 miliardi di dollari», cifre che non si vedevano dai tempi della Guerra Fredda. E, se don Luigi Ciotti mette in guardia - «non c’è guerra in cui non si inseriscano le mafie, fra corruzione, traffici di armi e ricostruzione» - Adriano Ramonda, della Papa Giovanni XXIII, denuncia il clima di corsa al riarmo anche dell’Italia: «Siamo arrivati a 28 miliardi, più 5,5%, senza contare l’acquisto in 14 anni di 132 carri armati Leopard 2 per 8,2 miliardi». Tornare a parlare di riconversione dell’industria bellica, di un ministero per la pace (antica proposta di don Benzi), di un dipartimento per i diritti umani non è utopia, ma la consapevolezza che «la pace si costruisce con la pace».
«Riuscire a vedere l’esito finale di un processo, quelle armi che produciamo sono le stesse che ammazzano bambini, civili» è l’impegno della campagna delle Chiese cristiane, dice Maria Elena Lacquaniti, della Federazione Chiese evangeliche in Italia. E sicuramente la sensibilità su questi temi è cresciuta, se è vero che, come sostiene Andrea Baranes di Banca etica, la richiesta di una finanza pulita, non coinvolta in investimenti che danneggiano il pianeta, come i combustibili fossili, o provengono dalla vendita di armi, è sempre più diffusa. Tanto da preoccupare qualche ministro, che «un paio di mesi fa ha proposto di inserire le spese per la Difesa nella finanza sostenibile».
«La 185 è una grande conquista e non deve essere svuotata», spiega Stefano Tassinari, vicepresidente Acli. «Da un’economia di morte erediteremo solo morte. Questa guerra globale a pezzi si sta avvicinando al nostro territorio. Il vero realismo è quello della pace. Occorre impegnarsi in un’offensiva diplomatica come ha fatto papa Francesco».
All’appello si unisce anche Paolo Ciani segretario di Demos, che racconta di un’aula parlamentare «dove si assiste al tentativo di rendere, anche da un punto di vista culturale, la guerra sempre più “normale”. La 185 è nata grazie a una grande mobilitazione della società civile responsabile, a cui i cristiani hanno dato un contributo fondamentale».
«La strada della pace non può essere quella delle armi», denuncia l’arcivescovo Giovanni Ricchiuti. Che chiede una maggiore parresia anche ai suoi confratelli vescovi, ricordando l’impegno di don Tonino Bello, suo predecessore alla presidenza di Pax Christi: «Ci sono momento in cui non si può tacere». D’altronde papa Francesco non fa che ripetere con chiarezza che la guerra si nutre del commercio di armi. «Quante risorse vengono sprecate per le spese militari che, a causa della situazione attuale, continuano tristemente ad aumentare!», ha detto all’Angelus alla vigilia del 5 marzo, Giornata internazionale per la consapevolezza sul disarmo e la non proliferazione. «Occorre passare dall’equilibrio della paura all’equilibrio della fiducia. Il disarmo è innanzitutto un dovere morale».