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domenica 09 febbraio 2025
 
 

Volontariato, l'Europa più bella

03/04/2011  Circa 100 milioni di cittadini, oltre un quinto della popolazione, s'impegna abitualmente nel volontariato. Nostro viaggio in Italia, Francia, Germania, Regno Unito.

Più di un quinto degli europei (circa 100 milioni) partecipa abitualmente ad attività di volontariato o di beneficenza. Il dato è contenuto nella ricerca “Participation in volunteering and unpaid work” resa pubblica lo scorso 17 febbraio da Eurofound, l’agenzia dell’Unione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. E i dati dello studio sono stati ripresi in occasione della Conferenza europea sul volontariato, “Sussidiarietà e volontariato in Italia e in Europa”, organizzata dal ministero del Welfare e svoltasi a Venezia, il 31 marzo e il primo aprile.


Dai risultati dello studio emerge anche il profilo medio della persona coinvolta in attività di volontariato: di mezza età, ben istruita, con reddito elevato, mentre poco rilevanti appaiono le differenze di genere. I più alti tassi di partecipazione si registrano in Danimarca, Finlandia, Svezia, Austria e Paesi Bassi, dove in media oltre il 40 per cento delle persone di età superiore a 18 anni partecipano abitualmente ad attività di volontariato o beneficenza. Grecia, Regno Unito, Francia, Slovenia e Belgio registrano un tasso di partecipazione che superano il 30 per cento. Le più basse percentuali di partecipazione in Romania, Bulgaria e Polonia, come anche in Portogallo e Spagna, dove la percentuale di persone che si dedicano abitualmente ad attività di volontariato o beneficienza è inferiore al 15 per cento. L’Italia si situa al 14° posto della classifica, e quindi attorno alla media europea: il 23 per cento. 

In media, i cittadini dei Paesi dell’Europa orientale sono meno propensi a svolgere attività di volontariato e beneficienza, ma quando lo fanno vi dedicano più ore la settimana rispetto a quelli dell’Europa a 15. Proprio in base alla frequenza con cui l’attività di volontariato viene svolta, la ricerca Eurofound distingue tra volontari assidui e occasionali. La categoria degli assidui comprende gli “every day”, ossia coloro che sono volontari attivi “tutti i giorni”, ma anche tutti coloro che svolgono attività di volontariato o beneficienza una o più volte la settimana. Gli occasionali, invece, sono attivi meno di una volta la settimana. Ed è qui che le differenze si fanno macroscopiche e si allungano le distanze tra i paesi. In Olanda i volontari sono in totale il 42 per cento della popolazione adulta. La metà di loro sono assidui (21 per cento almeno una volta la settimana) e l’altra metà sono occasionali (21 per cento meno di una volta la settimana). In Danimarca, Belgio e Germania i volontari assidui sono il 14 per cento. In Italia gli assidui sono il 9 per cento della popolazione adulta: saliamo quindi al 11° posto in questa ipotetica classifica della solidarietà.

L’identikit del volontario europeo: adulto, istruito, benestante. Le persone con un elevato livello di istruzione hanno maggiori probabilità di essere volontari nel corso della loro vita. In termini di età, i volontari più assidui hanno tra i 45 e i 50 anni. Forte in genere è anche il legame con le istituzioni religiose. Le persone che partecipano regolarmente alle funzioni sono infatti più propense a partecipare frequentemente ad attività di volontariato e beneficenza. Coloro che partecipano ad attività di volontariato e di beneficenza vi dedicano in media 6,5 ore la settimana. E nei Paesi con livelli relativamente più bassi di partecipazione le persone che comunque svolgono attività di volontariato e beneficienza tendono a dedicarvi più tempo, come a compensare il minore impegno dei loro concittadini. Le persone con alti livelli di istruzione dedicano al volontariato, in media, un’ora e mezza in più a settimana rispetto alle persone con bassi redditi. Gli uomini dedicano, in media, circa un’ora in più a settimana rispetto alle donne.

Oltre al benessere materiale, anche la soddisfazione generale per la propria vita gioca un ruolo importante. Da un lato, il lavoro di volontariato contribuisce a rendere complessivamente più soddisfacente la qualità della vita degli stessi volontari e i loro rapporti con il vicinato e con la comunità locale più in generale. Le persone che praticano più frequentemente attività di volontariato e beneficienza, o altre forme d’impegno sociale o religioso, manifestano infatti maggiore felicità, maggiore soddisfazione per la vita, hanno più stima di sé e più senso di controllo sulla vita, una migliore salute fisica minore propensione alla depressione. I risultati della ricerca Eurofound indicano infatti, da un lato, che il volontariato migliora tutti questi sei aspetti del benessere soggettivo e, dall’altro alto, e che le persone che godono di maggiore benessere psico-fisico tendono a investire più ore nel volontariato. 

Al contrario, le persone che sono già coinvolte nel lavoro di cura non retribuito, per i figli o per parenti anziani o non autosufficienti, sono meno propensi a partecipare ad attività di volontariato e di beneficenza. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di compiti di “volontariato domestico” incombenti quasi esclusivamente sulle donne, e ciò spiega l’apparente minore partecipazione delle donne ad attività di volontariato non domestico. Sommando infatti le due forme di “lavoro non retribnuito”, le donne spendono rispetto agli uomini quasi il doppio del tempo per attività di volontariato e cura. 

Macché individualisti e disimpegnati: i giovani italiani che dedicano parte del loro tempo libero ad attività gratuite e di volontariato sono in aumento. E’ la buona notizia emersa a Venezia, alla Conferenza del volontariato "Sussidiarietà e volontariato in Europa: valori, esperienze e strumenti a confronto", organizzata dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, il 31 marzo e il primo aprile, come inaugurazione dell’Anno europeo del volontariato. A sfatare il luogo comune secondo il quale i giovani italiani sarebbero sempre meno impegnati e propensi alla gratuità ci ha pensato il professor Giancarlo Rovati, docente di sociologia all’università Cattolica di Milano che ha presentato al simposio veneziano la relazione introduttiva al gruppo di lavoro su giovani e volontariato.


«E’ vero che in termini assoluti è diminuita la componente giovanile (meno 107 mila unità tra il 1996 e il 2006) rispetto al numero complessivo di chi presta attività gratuita, ma solo perché il Paese sta invecchiando e i giovani tra i 14 e 34 anni sono calati nel decennio in questione di un milione e mezzo», esordisce Rovati. Se si va invece a vedere in percentuale il numero di giovani impegnati, osserva il sociologo,  si scopre che questa è decisamente aumentata: se nel ’96  erano sei su cento, nel 2006 sono saliti a 8,5. «Insomma», osserva ancora Ravati, «la propensione nelle giovani generazioni a impegnarsi in attività gratuite c’è e non si esprime solo nelle organizzazioni di volontariato ma anche nel donare tempo in altre realtà associate, enti  o istituzioni. Ciò significa che l’area dell’oblatività eccede  quella del semplice volontariato». 

Dall’analisi dei dati, emerge, inoltre, che non vi sono differenze sostanziali per età rispetto all'impegno gratuito a favore degli altri. Una variabile più influente sembra essere invece il livello d’istruzione: più alto è il tasso d’istruzione e più alta è la propensione a rimboccarsi le maniche per aiutare chi fa più fatica o per tutelare l'ambiente, senza nulla chiedere in cambio. «Che i giovani italiani siano meno disimpegnati di quanto li dipinga qualcuno è cosa che sappiamo bene», commenta Marco Granelli, presidente di CSVnet (il Coordinamento nazionale dei Centri di servizio per il volontariato) che raccoglie oltre diecimila sigle associative. «Ciò non significa, però, che non esista una seria questione di ricambio generazionale nel mondo dell’associazionismo: la sua classe dirigente è vecchia e necessita di un ricambio».

Ci si fida di più di un volontario che di un carabiniere o di un poliziotto. Il mondo del volontariato, tra le istituzioni italiane, è “l’unica realtà  capace di conservare, nel tempo, un livello di fiducia elevato presso la maggior parte dei cittadini”. A dirlo è l’Eurispes nel “Rapporto sull’Italia nel 2011”. Ben il 79,9 per cento degli italiani  ha dichiarato, infatti, di aver fiducia  nelle associazioni di volontariato, percentuale che supera anche quella tradizionalmente molto alta delle Forze dell’ordine (Carabinieri 72,6 per cento, Polizia 66,8 per cento, Guardia di finanza 64,9 per cento), e distanzia istituzioni come la scuola (43,7 per cento) e la Chiesa (40,2 per cento). A conferma della fiducia degli italiani in queste realtà, c’è un dato dell’Istat: sono 9 milioni e mezzo i cittadini che versano denaro a un’associazione (il 15,8 per cento dell’intera popolazione).   

Il magmatico mondo del no-profit non sembra risentire, quindi, di riflussi individualistici, né della crisi della politica nostrana. Sia il numero assoluto delle associazioni che quello dei volontari sono in aumento (20 mila sigle circa per 5,4 milioni di cittadini), secondo gli studi dei CSV italiani, i Centri di servizio per il volontariato, istituiti per legge nel 1991. Mentre ci sarebbe una lieve contrazione del numero medio dei volontari.       


Altra tendenza registrata è quella di una polverizzazione del fenomeno associativo che viene spiegata con la nascita e il proliferare di nuove piccole associazioni nell’area della tutela del patrimonio e dei diritti, che inevitabilmente sorgono localmente sul territorio, piuttosto che avere dimensioni regionali o nazionali. Secondo una rilevazione della Fivol (Fondazione italiana per il volontariato) del 2006, il numero di associazioni “indipendenti”, cioè non affiliate a grandi sigle nazionali, ma nate spontaneamente dai cittadini, rappresenta  i tre quarti delle associazioni di volontariato nate nel quinquennio 2000-2005, a fronte del 63,8 per cento del quinquennio precedente e del 57,4 per cento del 1990-1995.      

Un ulteriore caratteristica del movimento volontaristico italiano  è la disomogeneità territoriale:  il 29 per cento  è registrato nel Nordovest, il 31 per cento nel Nordest, il 20 per cento nel Centro e ancora il 20 per cento nel Mezzogiorno. 

In Francia ce l’hanno già in 800 mila. Si chiama “Passaporto del volontariato”: è un documento personale che attesta le esperienze trascorse all’interno di una associazione di volontariato. Introdotto in via sperimentale nel 2007 su iniziativa della rete nazionale di volontariato “France Bénévolat”, questo libretto di una decina di pagine  certifica i percorsi compiuti e le abilità che il volontario ha acquisito nelle organizzazioni no-profit. E’ una specie di curriculum specializzato nelle attività prestate a titolo gratuito in organizzazioni e associazioni.

A Venezia, alla Conferenza sul volontariato, organizzata dal Ministero del lavoro  e delle politiche sociali, svoltosi dal 31 marzo al primo di aprile, Susanna Szabo, vicepresidente di France Bénévolat, membro del consiglio direttivo del Cev (Centro europeo del volontarato) ha rilanciato il progetto di passaporto per tutti i Paesi del continente. «Si tratta di uno strumento, già sperimentato in Svizzera e in altri Paesi europei, che si è dimostrato utile per valorizzare le esperienze dei volontari e che sta diventando spendibile dai giovani per accedere al mercato del lavoro», spiega Szabo. «Non è ancora una certificazione con valore legale, come potrebbe essere un diploma scolastico, ma una credenziale sempre più appetita da aziende ed enti, perché aver lavorato dentro un’associazione di volontariato significa aver acquisito competenze relazionali che si rivelano fondamentali in molte attività professionali». 

In Francia il movimento del terzo settore è una realtà importante con una  tradizione secolare, basti pensare che nella Costituzione francese del 1793 sta scritto: “Il soccorso pubblico è un debito sacro”. Complessivamente il volontariato (tra associazioni, cooperative, gruppi di mutuo-aiuto e fondazioni) conta dai 16 ai 18 milioni di aderenti. «L’associazionismo è di gran lunga il fenomeno più rilevante con un milione di gruppi organizzati oggi attivi nel Paese», prosegue la vicepresidente di France Bénévolat che evidenzia le novità principali di questo settore: «In passato i nostri volontari si sono sempre distinti per una forte carica ideologica. Prima che volontari, erano militanti. Oggi questo tratto ‘politico’ s’è assai ridotto, per lasciar spazio a una comune volontà di realizzare qualcosa di concreto che migliori le condizioni di vita della comunità. Altra tendenza è quella alla mobilità: si passa con molta più disinvoltura da un’associazione a un’altra, oppure si aderisce contemporaneamente a più sigle». La tessera “a vita” è, per i volontari transalpini,  cosa d’altri tempi.

«La novità in Germania? Che le esperienze nel volontariato stanno diventando spendibili per i giovani nell’affrontare il mercato del lavoro. Una importante catena di grandi magazzini della mia città ha mandato un gruppo di giovani dipendenti  a fare "apprendistato" in associazioni di volontariato. E’ un segnale importante», afferma Gisela Lucke, tedesca, rappresentante della BBE, la “Rete federale  di impegno civile”,  e  dal 2005 membro del consiglio direttivo del Cev, il Centro europeo del volontariato che, con i suoi 88 membri, opera per sostenere e promuovere il volontariato in tutto il Vecchio Continente.

Lo Stato tedesco considera l’impegno civico (Burgerschaftliches Engagement) un requisito essenziale per la coesione della società. Già nel 1999 il Parlamento tedesco avviò una Commissione di studio sul futuro delle attività civiche allo scopo di rafforzare la presenza del volontariato.  Le “Vereine” (organizzazioni registrate) sono la forma più diffusa di società di volontariato: si calcola che circa il 50 per cento della popolazione tedesca superiore ai 15 anni appartenga ad almeno una di queste organizzazioni che superano il mezzo milione di unità. Molti sono anche i cosiddetti “gruppi di mutuo-aiuto”: tra i 70 e i centomila nel Paese.    

Una delle tendenze di queste realtà, registrate peraltro anche in altri Paesi europei, è una maggiore ‘mobilità’ dei volontari tedeschi: non si dedica più servizio nella stessa associazione per tutta le vita, ma si basa il proprio impegno più su progetti definiti, in modo più spontaneo e aperto all’autodeterminazione.  E’ quanto emerge, tra l’altro, dallo studio elaborato dal “Centro per lo sviluppo per la società civile” (ZZE) di Friburgo, per il report “Il volontariato in Europa” prodotto dalla Spes (Centro di Servizio per il volontariato  del Lazio), di prossima pubblicazione. La relazione del fenomeno in Germani a sottolinea come negli ultimi anni i governi tedeschi abbiano puntato molto sulle cosiddette “politiche dell’impegno”. 

Nuove forme di volontariato sono nate di recente: “alcuni già noti e dotati di visibilità sono l’Anno di volontariato sociale, l’Anno di volontariato ecologico, e l’Anno di volontariato nel campo della cultura”, osserva il rapporto: “Nel 2009 circa 38 mila giovani hanno partecipato a queste iniziative, in Germania o all’estero. In aggiunta due anni fa è stato lanciato il Servizio dei volontari per lo sviluppo e nel 2008 oltre 2.200 giovani hanno sperimentato quest’anno di volontariato all’estero”. Minor attenzione  istituzionale è data, invece, sempre secondo lo studio, al volontariato ‘informale’ d’assistenza alle persone e alle famiglie. La questione del compenso economico dei volontari, infine, è oggetto, oggi, di grande dibattito in Germania: riguardo ai servizi volontari, dov’è possibile tracciare una linea di confine tra il rimborso delle spese e una retribuzione vera e propria? Può dirsi ancora attività gratuita un impegno anche solo in parte retribuito?

 

In Inghilterra a rilanciare, di recente,  la centralità sociale del volontariato ci ha pensato il premier David Cameron e il suo progetto di “big society”. Ma i valori della sussidiarietà e della gratuità nel Regno Unito affondano le loro radici prima del secondo conflitto mondiale. Basti ricordare l’impegno delle donne inglesi del WRVS, “Womens’ Royal Voluntary Service”, cioè del “Servizio volontario femminile della Corona” che servivano i pasti caldi a domicilio alle famiglie bisognose fin dagli anni ’40.

Oggi, in Inghilterra si distinguono, anche statisticamente, due tipi di volontariato: quello “formale”, che ha luogo in gruppo o associazione, e quello “informale” che invece si fa in modo indipendente da tali organizzazioni. Si stima che nel Regno Unito possano andare dalle 600 mila alle 900 mila le “microimprese sociali” guidate da volontari. Almeno una volta al mese, un inglese su quattro presta il proprio tempo in modo gratuito all’interno di un’associazione di volontariato. Il 41 per cento lo ha fatto almeno una volta all’anno. Il volontariato informale è ancora più diffuso: il 35 per cento degli inglesi ha partecipato mensilmente a un’attività gratuita, e il 62 per cento almeno una volta all’anno. 

Sono alcuni dei dati pubblicati dall’Istituto per la ricerca sul volontariato (IVR) inglese il cui report è inserito nella ricerca di prossima uscita  curata dallo Spes, il Centro di Servizio  per il volontariato del Lazio, intitolato “Il volontariato in Europa”. Stabile rispetto ai valori del 2001,  secondo il rapporto che si riferisce agli ultimi dati del 2009, è la percentuale per quanto riguarda il volontariato formale, mentre sarebbe in calo significativo il volontariato informale. Il tasso di attivismo è correlato all’età: chi è nella fascia d’età tra i 35 e i 74 anni  è più propenso a operare nel “formale”, chi tra  i 16 e i 25 anni e tra i 65 e i 74 opta maggiormente per l’impegno “informale”. 

Anche la classe socio-economica  è un fattore che incide: più alto è il livello di qualificazione della professione  e del ceto sociale più elevato l’impegno  nelle associazioni. Altro fenomeno recente è la mobilità dei volontari e la loro appartenenza “plurima”: nel 1997 era il 53 per cento che collaborava con più organizzazioni, oggi è il 59 per cento, di cui un terzo in almeno tre movimenti diversi. I settori di attività più popolari sono: il mondo dell’istruzione (31 per cento), la religione (24 per cento), lo sport (22 per cento) alla pari con  salute e disabilità. Più di frequente i volontari formali sono impegnati nella raccolta e distribuzione dei fondi (65 per cento).  Pare, infine, esista nei giovani un nesso diretto tra esperienza di volontariato realizzata e maggiore possibilità di occupazione lavorativa.

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