Negli ultimi quattro anni, il numero di terreni esteri acquistati da governi e multinazionali per produrre cibo e carburanti ha avuto un'impennata con l’accentuarsi del cambiamento climatico e a causa delle nuove abitudini alimentari di milioni di cinesi e indiani. Pechino, da sola ha acquisito più di tre milioni di ettari in diverse aree del mondo, di cui ben 2,8 nella Repubblica Democratica del Congo. Un Paese, quest'ultimo, tra i più gettonati insieme a Indonesia, Filippine, Sudan e Australia. Ma l'allarme suona ovunque, e non solo per la quantità di terra "arraffata" (il cosiddetto “land grabbing“, “sgraffignare terreni“, per via delle operazioni commerciali poco trasparenti). Il fenomeno riguarda anche l'acqua, la sottrazione del cosiddetto "oro blu", che in questo caso prende il nome di "water grabbing". Di recente, infatti, è stato calcolato su scala mondiale l'impatto di questo neocolonialismo sulle risorse idriche, con un risultato impressionante: per coltivare 47 milioni di ettari, pari al 90% delle terre acquisite globalmente, servono 454 miliardi di metri cubi all'anno. Più di dodici volte il Lago Maggiore.

Pubblicato dal prestigioso Proceedings of the National Academy of
Sciences of the United States of America, questo studio sul "water grabbing" è stato realizzato
da tre ingegneri idraulici italiani, Maria Cristina Rulli e Antonio
Saviori del Politecnico di Milano, e Paolo D'Odorico, "cervello in fuga"
di stanza ormai da anni all'University of Virginia. «In questo momento l’acqua non manca, ma occorre dare maggiore
sostenibilità al suo utilizzo», avverte Rulli. In pratica, non si può
continuare a sfruttare risorse senza migliorare, in cambio, le economie
locali: con coltivazioni straniere su ampia scala che lasciano a secco
quelle dei residenti, il rischio di tensione sociale è altissimo, specie
in Africa. Un esempio? Il Sudan, dove gli investimenti diretti occupano
gran parte del bacino del Nilo, sottraendo al territorio una quantità
d'acqua pro capite che basterebbe a garantire la sicurezza alimentare.
Invece, il Paese ha un alto livello di malnutrizione benché risulti,
proprio per effetto del "land grabbing", un grande esportatore di prodotti
agricoli.

Il nuovo espansionismo vede tra i maggiori "cacciatori di terre" il Regno Unito, la Cina e gli Stati Uniti, seguiti da Emirati Arabi e Israele, particolarmente sensibili al cambiamento climatico. Tuttavia, poiché l'autosufficienza alimentare ed energetica delle singole nazioni è ormai impensabile, la corsa agli approvvigionamenti riguarda gran parte del mondo (Italia compresa, schema in basso). E dal "land" al "water grabbing" il passo è breve. Anche perché, spiega l'igegnere idraulico Maria Cristina Rulli, «l'86% dell'acqua è utilizzato a livello globale in agricoltura».
E 454 miliardi di metri cubi sono una quantità enorme con cui, volendo, si potrebbe coltivare una volta e mezza l'intera superficie del nostro Paese.
Il dato include l'acqua piovana?
«Sì, è anche quella una risorsa preziosa che viene sottratta ai territori, la cosiddetta "green water", e ammonta a 308 miliardi di metri cubi all'anno. I restanti 146 miliardi che compongono il totale complessivo sono di acqua fluente: fiumi, laghi, falde acquifere. Bisogna tenere presente, però, che la terra "arraffata" aumenta ogni giorno, perciò la quantità di risorse idriche impiegata è in costante crescita».
Nell'analisi condotta, non sempre i maggiori investitori in terre straniere risultano anche fra i più impegnati nel reperimento di acqua: avete calcolato i consumi idrici in base alle singole colture impiantate?
«Esattamente. Abbiamo incrociato i dati forniti da Grain e Land Matrix – le due organizzazioni che monitorano gli acquisti territoriali oltre i 200 ettari nel mondo – con le necessità idriche per la massima resa delle coltivazioni e, infine, con le analisi meteorologiche dei territori. L'India, per esempio, impiega più acqua altrui rispetto alla Cina nonostante abbia meno territori acquisiti. Inoltre, l'aumento di green water utilizzata in molte aree interessate dagli investimenti suggerisce che parte delle terre non erano coltivate prima delle acquisizioni ma erano foreste o savane. Il processo contribuisce quindi al disboscamento del pianeta e all'impoverimento del suolo».
Considerati i molteplici interessi in gioco, quali possono essere i rimedi?
«Che si tratti di innovazioni tecnologiche, di aumento dell'occupazione o di cibo lasciato ai territori, l’unica soluzione – alla quale stanno lavorando Banca Mondiale, Fao e Ifad – è fare in modo che il land acquisition sia un'opportunità non solo per chi investe ma anche per le popolazioni locali».
