Leonardo Becchetti, economista
E’ un Primo maggio amaro quello dei dipendenti della Whirlpool-Indesit di Caserta. La multinazionale americana che produce elettrodomestici ha annunciato nei giorni scorsi il licenziamento di 1335 lavoratori, 815 dei quali impiegati negli impianti di Carinaro, nel Casertano. Il colosso americano ha deciso di chiudere lo stabilimento, nonostante il vecchio piano di riassetto Indesit non prevedesse alcun licenziamento in Italia fino al 2018. Il nuovo piano Whirlpool per il nostro Paese prevede 500 milioni di investimenti, con crescita della produzione di mezzo milione di pezzi l’anno.
Ancora una volta, tuttavia, il Sud viene colpito e il Casertano rischia la desertificazione industriale, sebbene, secondo i piani dell’azienda, nuovi investimenti sarebbero previsti per gli impianti di Napoli. Tutto ciò accade, tra l’altro, dopoché il gruppo americano ha chiuso il primo trimestre 2105 dichiarando un utile netto di 191 milioni di dollari, in crescita del 18% rispetto all’anno precedente e ricavi al +11%. E proprio in Europa la multinazionale sta realizzando utili operativi e vendite record.
Il “sacrificio” di Caserta è l’ennesimo colpo inferto all’occupazione nel Meridione e l’ultimo episodio del serial che racconta la deindustrializzazione di questa parte d’Italia.
Il “paradosso” Whirlpool, purtroppo, è solo apparente, spiega l’economista Leonardo Becchetti, docente di Economia politica all’università di Roma Tor Vergata: “Il punto è che le imprese hanno come obiettivo primario la massimizzare dei profitto a vantaggio dei propri azionisti. In quest’ottica non si chiude un centro di produzione solo quando è in perdita, ma anche quando produce meno utile rispetto a un altro centro, vicino o lontano che sia, o meno rispetto a un piano industriale prefissato”.
Al di là della vicenda dello stabilimento di Carinaro, precisa l’economista, quando sono coinvolti settori del manifatturiero a bassa qualifica, il costo del lavoro è determinante e le aziende, multinazionali in testa, delocalizzano sempre dove il lavoro costa meno. “E lo si sa: un operaio italiano costa di più di uno polacco, per fare un esempio. La dimostrazione di ciò è l’estrema difficoltà con cui s’è risolta la vertenza di Electrolux in Friuli (l’anno scorso il gruppo svedese di elettrodomestici s’è impegnato a riassorbire i 150 esuberi dello stabilimento di Porcia, ottenendo in cambio una riduzione del costo del lavoro attraverso i contratti di solidarietà che utilizzano la decontribuzione del governo e altri interventi, ndr)”. Il vero problema per il nostro Paese, e per il Sud in particolare, secondo Becchetti, insorge quando una produzione locale non ha alcun vantaggio competitivo. “La debolezza competitiva non dipende solo dall’alto costo del lavoro, ma anche dalle situazioni di contesto, come la tassazione, le infrastrutture, la malavita organizzata, i tempi infiniti delle cause civili. Tutti questi fattori negativi, assai presenti in Meridione, che si potrebbero riassumere con l’inefficienza della pubblica amministrazione, hanno prodotto dal 2007 ad oggi la riduzione del 50% degli investimenti esteri in Italia”.
Quindi non è solo questione di Jobs act. “la scommessa per l’Italia è quella di creare vantaggi competitivi, difficilmente esportabili all’estero con delocalizzazioni produttive”, afferma l’economista. “Per questo è importante scoprire e valorizzare il ‘genius loci’ di un certo territorio. E non sto parlando solo di industria turistica o produzione enogastronomica”. Pena la desertificazione industriale e il dramma della perdita del lavoro per tanti lavoratori.