Bradley Wiggins è diventato il primo
inglese, anzi britannico vincitore del Tour de France (nel 1987 la
maglia gialla era stata di Stephen Roche - fra l’altro in
quell’anno vittorioso anche nel Giro d'Italia -, irlandese ma
dell'Eire). Ha 32 anni, è nato in Belgio, a Gand, dal papà
ciclista itinerante dei velodromi è stato messo in pista a dodici
anni. Wiggins pistard spilungone ha vinto fra l’altro tre medaglie
d’oro olimpiche (Atene 2004 inseguimento individuale, Pechino 2088
inseguimento individuale e a squadre), ha collezionato successi
mondiali, podi e piazzamenti. Ha gareggiato anche su strada, fra
l'altro vincendo spesso a cronometro, ma soltanto negli ultimi anni
ha messo da parte, saziatissimo, il se stesso pistard e, convinto dai
tecnici ma soprattutto ispirato da un suo sogno (primo del suo Pese
a vincere il Tour, toh), si è dato in pieno alla strada seguendo un
piano di riconnotazione dello sforzo: nel senso che ha continuato sì
a dare molte pedalate, ma intanto sotto di lui è cambiata la
bicicletta, sono cambiati i rapporti, sono cambiati gli pneumatici, e
intorno a lui è cambiato il ciclismo tutto.
Di suo ha cambiato
l’allenamento specifico per il Tour, solo corse a tappe, niente in
linea, e l’alimentazione (dieci chili in meno), intanto che ha
badato ad andare avanti nella sua solita vita contadina nella
campagna inglese, con moglie e due figli. Wiggins, burbero ed
essenziale, sincero e battagliero, è la risposta a chi nel nome
della specializzazione ha costretto, per tanti anni, il ciclista a
fare questo e non quello, insomma a sentirsi irrimediabilmente
tipicizzato, e se pistard condannato a restar tale.
Una volta provammo a dire ad uno
sprinter celebre e tipico, lo spagnolo Miguel Poblet, che se lui
aveva vinto al Giro d'Italia una cronoscalata questo doveva
significare che se si spinge sui pedali si va avanti eccome,
indipendentemente anche dal fatto che la strada sia in salita, e
magari senza bisogno di essere dei piccoletti: ci disse che il suo
era stato soltanto un caso. Adesso viene da pensare a quanto talento
ciclistico in apparenza soltanto pistaiolo è stato buttato per
strada, anziché gettarlo anche sulla strada: e purtroppo non è un
gioco di parole. Wiggins, che si era presentato al via del Tour come
favorito, dopo avere vinto in questo 2012 la Parigi-Nizza, il Giro di Normandia e il Giro del Delfinato, ha dominato la corsa favorito anche
dai più di 100 chilometri a cronometro regalatigli dagli
organizzatori.
La sua squadra, la Sky, ha tenuto tutto e tutti in
pugno, a cominciare dall’australiano Cadel Evans vincitore nel
2011, fra l’altro conquistando quattro tappe con Mark Cavendish,
inglese ed ex pistard pure lui, per il quarto anno consecutivo primo
nello sprint di Parigi, stavolta in maglia di campione del mondo
2011, proclamato ormai il più grande sprinter stradaiolo di ogni
tempo, superfavorito per la gara olimpica di sabato prossimo in
programma nel secondo giorno dei Giochi di Londra 2012. Cavendish, al
quale la volata ultima è stata tirata dal supergregario Wiggins in
maglia gialla!
Wiggins soprattutto ha gestito bene il
delicato rapporto in squadra con Christopher Froome, avi inglesi,
nato in Kenya nel 1985 e cresciuto in Sudafrica, britannico dal 2007
dopo avere corso da giovanissimo come cittadino kenyota, suo compagno
e amico e rivale. Froome, battuto a priori a cronometro, in almeno
due tappe di montagna, ha dato l’impressone di potere staccare
Wiggins, e di non averlo fatto perché ammonito via radio dalla sua
ammiraglia. E’ lui, diremmo automaticamente, il favorito del
prossimo Tour, un Tour de France che dunque dovrebbe continuare a
parlare quell’inglese parlato imposto quest'anno anche dal
vincitore del Giro d'Italia, il canadese Ryder Hesjedal (e Evans
maglia gialla 2011 è australiano ergo anglofono pure lui).
Grande Wiggins scatenato, grande
Froome un po’ frenato, ottimo Vincenzo Nibali, il nostro siciliano
solido e sereno che realisticamente puntava al podio ed al podio è
arrivato, terzo a Parigi dopo i due imbattibili , che ha attaccato in
salita facendo sì che nell’insieme questo Tour, sin troppo
rispettoso dei pronostici, non sia risultato un bel po' noioso, che
ha 28 anni e magari riuscirà a diventare l'italiano in maglia
gialla a Parigi, l'"eroe" allacciabile al Marco Pantani
dell'ormai lontano 1998. Per il resto il nostro ciclismo non ha
conquistato tappe (Petacchi, 38 anni, ha fatto il massimo, un secondo
posto in uno sprint; la vittoria ci manca dal 2010), non è stato in
classifica se non con Nibali (Scarponi ha deluso), non ha messo
avanti qualche giovane (a parte Daniel Oss, se si vuole) per quel
futuro che i francesi invece sembrano avere un po' meglio
prenotato, con Pinot e Rolland e Voeckler miglior scalatore al Tour,
impegnati a dare al loro Paese un successo finale che manca dal 1985
di Hinault.
Abbiamo già scritto del Tour
cambiato, inglesizzato o meglio britannizzato, e ora diciamo del
ciclismo tutto che si sta mondializzando. Wiggins è un valore fisso,
un uomo da classifiche alte, sempre, niente che vedere con quello che
sinora era stato il pedalatore inglese suo predecessore più celebre,
quel Tommy Simpson che nell’ormai lontanissimo 1967, dopo avere
conquistato la maglia iridata ed avere dato persino l’impressione
di poter essere il primo britannico in giallo a Parigi, morì di
doping, solleone e cognac pedalando sulle pendici del Mont Ventoux,
il Monte Ventoso cantato da Francesco Petrarca.
Non risulta che il pensiero di Wiggins
sia volato così indietro. Il nuovo ciclismo sverna e corre in Qatar
come in Australia e in Sudafrica, dopo Froome africano bianco aspetta
i primi africani neri, poi gli asiatici. I ciclisti risiedono a
Montecarlo per ragioni fiscali, pedalano per petrolieri russi, per
magnati internazionali, nel caso di Wiggins e dei suoi per la grande
editoria televisiva che sponsorizza la squadra. Sulle strade del Tour
c'è sempre la Francia contadina, ma ormai il turismo sportivo
porta, a fare siepe umana sempre impressionante, legioni di inglesi,
statunitensi, canadesi, tedeschi, in aggiunta ai tradizionali
spagnoli e belgi e olandesi e svizzeri (pochi gli italiani, "viziati"
dai loro grandi del passato, Bartali e Coppi ma anche Nencini e
Gimondi, Moser e Bugno, Chiappucci e Pantani, oh Pantani).
Il
ciclismo italiano, come quello belga e quello francese, insomma il
ciclismo della Trimurti di Paesi che hanno dettato legge sino a Eddy
Merckx, si rallegra di un sicuro meritatissimo terzo posto
(bellissimo, ma non è peccato mortale dire che si può fare persino
di meglio: fra l’altro Nibali ha avuto a disposizione nella
Liquigas di un grosso gregario come Ivan Basso) ottenuto da un suo
coraggioso/talentuoso corridore, l'unico pedalatore fra quelli
attualmente in attività a essere salito sul podio del Giro italiano
(terzo nel 2010, secondo nel 2011), del Tour francese e della Vuelta
spagnola (primo nel 2010). E intanto può e deve festeggiare uno
slovacco di stipendio nostrano (Liquigas) e di ottima parlata nella
lingua di Dante con accento veneto (vive a Castelfranco) che si
chiama Peter Sagan, ha ventidue anni, conquista la maglia verde
della classifica a punti, vince tappe (tre, e il secondo posto
nell’ultimo sprint) e fa le gag di un Valentino Rossi, e noi
chiamiamo Peter Pan perché anche grazie anche a lui, "figlio"
nostro, stiamo un bel po' nella favola sempre bella del ciclismo.