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mercoledì 18 settembre 2024
 
 
Benessere

Winter blues e tristezze stagionali: ecco come gestirle

03/01/2018  Quanto più cerchiamo di evitare, respingere o lottare contro gli stati d’animo negativi tanto più questi si rafforzano

Caro dottore, ho 40 anni e sono madre di due bambine. Ho un lavoro che mi soddisfa e una bella famiglia. Da un paio d’anni però sento di subire l’arrivo dell’autunno attraverso un calo del tono dell’umore che perdura per qualche settimana e poi si risolve da sé. Tendo ad avere più sonno, stanchezza fisica e poca voglia di reagire. Io, così come chi mi sta accanto, non accetto questo mio cambiamento e a volte sperimento anche un senso di colpa nei confronti dei miei familiari. Non ricordo di aver avuto in passato queste manifestazioni e non so di casi del genere neanche nella mia famiglia d’origine. Che cosa ne pensa? Che cosa dovrei fare?

LORENA, ISERNIA

Nel passaggio dall’estate all’autunno molte persone lamentano una sintomatologia assimilabile alle cosiddette depressioni stagionali, che in ambito clinico vengono identificate come “deflessioni transitorie del tono dell’umore”. Nella letteratura scientifica queste condizioni di sofferenza psicologica vengono denominate “winter blues” (tristezza invernale) o “seasonal affective disorder” (Disturbo affettivo stagionale, Sad).

È sbagliato pensare che si tratti di vere e proprie depressioni o che chi le manifesta sia maggiormente predisposto a sviluppare la “depressione maggiore”.

In questo passaggio stagionale si verifica una progressiva riduzione delle ore di luce solare che in soggetti più sensibili può determinare un senso di stanchezza sin dalle prime ore del mattino, un aumentato desiderio di prolungare le ore di sonno (fino a due ore in più rispetto alla durata abituale), un aumento del senso di fame con frequenti attacchi compulsivi verso i carboidrati (craving), senso di tristezza e inadeguatezza e difficoltà di concentrazione. Gli studi epidemiologici hanno evidenziato che questa annuale alterazione dell’umore riguarda il tre per cento della popolazione, con una tendenza al rialzo.

L’approfondimento sulle caratteristiche di personalità su larga scala dei soggetti predisposti a queste alterazioni del tono dell’umore, fa emergere una sorta di sensibilità psicologica, di vulnerabilità: i malinconici stagionali sarebbero meno dotati di resilienza psicologica, avrebbero una ridotta capacità di far fronte in modo positivo agli eventi avversi e di saper fronteggiare rapidamente i cambiamenti. A questo fattore di rischio si aggiunge il progressivo cambiamento dei valori e dei modelli tipici della nostra società: tendiamo a dare sempre più importanza alla buona forma fisica, all’efficienza, alla giovinezza con ogni mezzo; la bellezza, la ricchezza e il potere occupano l’apice della scala dei valori del nostro tempo. In questo contesto una fase anche se transitoria di malinconia rappresenta un’inaccettabile minaccia all’autorealizzazione. Dunque la ragione prevalente del nostro disagio psicologico è la non accettazione di uno stato d’animo che non permette di essere al meglio e non lo stato d’animo di per sé, che se seguisse un percorso naturale si risolverebbe in tempi brevi.

Nel passato la malinconia non era considerata una malattia. Per Ippocrate (400 a.C.) era un tratto temperamentale. Nei primi anni del cristianesimo, pur non essendo considerata una malattia, fu invece demonizzata e assimilata all’accidia, uno dei sette peccati capitali. Durante il Romanticismo verrà addirittura valorizzata e considerata alla base dello spirito creativo degli artisti.

Vale la pena riflettere sul concetto di accettazione. Ricerche recenti hanno dimostrato che tanto più cerchiamo di evitare, respingere o lottare contro gli stati d’animo negativi quanto più questi si radicano e si rafforzano. Accettare deriva dalla parola latina capere che significa prendere: l’accettazione non consiste in una semplice auto-sconfitta o nel sopportare il proprio dolore, vuol dire invece prendere ciò che viene offerto, adottare un atteggiamento amorevole e gentile verso se stessi, verso le proprie esperienze e la propria storia di vita. Accogliere incondizionatamente i nostri temporanei o permanenti difetti può preservarci da forme più profonde di sofferenza.

Come scriveva Victor Hugo, uno dei padri del Romanticismo francese, «la malinconia non è una tristezza qualsiasi, è la felicità d’essere tristi, una tristezza dal sorriso mesto, vereconda e senza strepiti, densa di riflessioni ben capaci di arricchire, quasi pioggia fertile che si alterni al sole della gioia».

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