"La nostra vita", uno dei nove episodi di "Words with Gods". In alto: "Veri Dei". Sotto: "Il libro di Amos".
Tra le pellicole fuori concorso di questa 71a Mostra di Venezia, abbiamo pescato un'altra perla. Words with Gods (Parole con gli Dèi) è un'opera collettiva a episodi: nove registi di diverse nazionalità hanno girato altrettanti cortometraggi partendo dalla stessa riflessione. Cos'è Dio per loro? Che cosa rappresenta oggi la religione nello spazio e nella società che abitano?
Ne sono venute fuori nove riflessioni sul senso della spiritualità da un angolo all'altro del pianeta. Nove storie diverse per stile visivo, ambientazione culturale e sensibilità religiosa. Eppure, questa è la vera magìa, un unico film organico che cattura pian piano lo spettatore e, in una sorta di crescendo imposto dalle diverse urgenze delle storie proposte, lo conduce per mano verso lo stesso posto. Un luogo che l'uomo di tutte le latitudini ben conosce: il posto dell'anima. “Words with Gods è un puzzle fatto di nove tessere che esprimono sensibilità diverse sul tema Dio”, spiega il messicano Guillermo Arriaga, 56 anni, regista e sceneggiatore di livello mondiale (suoi i copioni di Amores perros, 21 Grammi, Babel, Le tre sepolture di Melquiades Estrada premiato a Cannes), motore dell'iniziativa che ha coinvolto tanti colleghi. “Sono convinto che la religione debba unire e non separare. Non debba essere una scusa per uccidere, disprezzare o umiliare nessuno. Abbiamo lasciato ogni regista libero di scegliere il soggetto, la tecnica e lo stile delle riprese. Mentre girava, nessuno era a conoscenza del lavoro degli altri. Unica richiesta che non girassero dei corti di maniera, limitandosi a mostrare celebrazioni religiose tradizionali. Volevamo racconti di personaggi che hanno un intimo rapporto con il loro Dio o i loro Dèi, che si pongono domande, che indagano, che cercano risposte. Sono venute fuori nove storie potenti che ci dicono che la religione è ancora oggi un elemento fondamentale di aggregazione sociale, politica e culturale per tutti i popoli. Attraverso la loro relazione con Dio o con gli Dèi, gli uomini trovano una ragione di vita col solo sostegno delle fede e dell'immaginazione. Oggi che il mondo è ancora afflitto da tante guerre, trovo sia fondamentale instaurare un dialogo interreligioso”.
Niente paura, quelle che scorrono sullo schermo non sono le sequenze a tema di un lavoro artefatto. Sono semplicemente avventure per immagini, storie in cui perdersi per poi ritrovarsi. Si comincia con la stupefacente luce rossastra del deserto australiano: Veri Dèi il titolo e Warwick Thornton il regista che racconta la spiritualià aborigena. Una donna si perde a bordo della sua auto nell'outback. Si ferma, scende, abbandona le sue cose, si toglie i sandali e, a piedi nudi, si addentra tra cespugli e sterpaglie. E' incinta, deve partorire. Sta cercando un luogo, della terra rossa da stringere nel pugno della mano. Altra spiritualità primitiva, l'umbanda, quella narrata dal brasiliano Héctor Babenco in L'uomo che rubò un'anatra. In una favela, una donna fugge dall'uomo che la maltratta. Ritroveremo lui malmesso, che si trascina per le strade di San Paolo come un barbone, farneticando tra sé e sé. Ha perso la compagna, l'intelletto e forse l'anima da quando il figlio che avevano è morto. Anche lui, ora, sta cercando...
Cambio di continente, di luci, di suoni e di colori per La stanza di Dio della regista indiana Mira Nair. La cinepresa segue la visita da parte dei membri di una ricca famiglia al cantiere del lussuoso appartamento dove tutti, tra poco, andranno a vivere. Il guaio è che quella che dovrebbe essere una festa si trasforma rapidamente in scontro di egoismi per chi si accaparrerà le stanze migliori. E pensare che la più bella dovrebbe essere riservata al culto di Dio. Ma ci sarà posto per lui, si chiede il più piccolo dei presenti? Intanto fuori brulica la miseria degli slums. Ennesimo atto di accusa della Nair al materialismo che, col benessere del ceto medio, si sta impossessando dell'India.
Dall'induismo si passa poi al buddismo del regista giapponese Hideo
Nakata. Sofferenze è un racconto di lutto e accettazione. Quella di un
pescatore che ha perduto moglie e figli per lo tsunami del 2011. Che
senso ha vivere? Perché gli Dèi non hanno preso anche lui? Un amico
monaco lo aiuta a trovare le risposte. L'episodio più toccante e
raffinato. Un delicato distillato di dolore.
Brusco salto di stile con
Il libro di Amos, firmato dal pluripremiato regista israeliano Amos
Gitai, in tutti i suoi lavori pacifista convinto. Alcuni attori dei suoi
film più famosi, in abiti antichi, declamano brani profetici
dell'Antico Testamento mentre, sullo sfondo, soldati e civili si
affrontano e combattono in un oggi senza speranza. Un ammonimento.
L'episodio più colto e surreale lascia poi spazio al più divertente (e
applaudito in sala), non per nulla firmato dallo spagnolo Alex de la
Iglesia, volpone del cinema che piace. La confessione è il suo sguardo
irriverente, ma al tempo stesso non banale, sul cattolicesimo della sua
gente. Un piccolo thriller in cui un assassino, fuggendo ferito e
braccato, trova rifugio nel taxi di un autista molto devoto. Finirà così
in una direzione inaspettata.
Altro salto spazio
temporale e altro balzo in avanti. Anzi, più in alto per il frammento
visivamente più bello, cinematograficamente più puro. Addirittura
sorprendente se si pensa che a firmare La nostra vita, sul cristianesimo
ortodosso, è Emir Kusturica, serbo dall'animo zingaresco. Storia della
giornata di un prete votata al sacrificio. Gli altri lavorano alla
costruzione di un tempio, lui spacca pietre che mette nelle bisacce per
poi scalare il pendio roccioso di una montagna aspra ed evocativa. Per
chi? Perché? Nei suoi sguardi affannati leggiamo le risposte.
Suggestivo. Ed è quasi bussando alla porta del vicino che ci si ritrova
in Irak, alle prese con l'islam, oggi tanto temuto e tristemente famoso.
La religione madre di tutti gli estremismi? Ma quando mai! Basta che a
raccontarla sia un iraniano come Bahman Ghobadi, nato in una famiglia
sunnita ma cresciuto in mezzo agli sciiti. A volte alza lo sguardo è
l'esortazione che uno dei protagonisti lancia al fratello. Il guaio è
che son gemelli siamesi, uniti per la nuca. Per di più, diametralmente
opposti per gusti e carattere. Uno, estremamente osservante, interroga
invano l'imam sul perché Allah li abbia voluti così (“Ho cercato perfino
su Internet”, la dissacrante risposta, “ma non sono riuscito a trovare
niente”). L'altro accetta di seguirlo nel tempio e di sdraiarsi verso il
soffitto mentre l'altro si prostra, purché lui capisca che Dio non si
trova solo guardando verso terra ma anche alzando gli occhi al cielo. E
soprattutto, accetti di rendersi complice dell'incontro con una bella
ragazza, da lui tanto agognata.
Non si fa in tempo a sorridere, di
fronte a questo islam dal volto così umano, che ecco irrompere
l'episodio conclusivo: Sangue di Dio, firmato proprio da Guillermo
Arriaga. Siamo nel Messico del progresso a spese della natura. Un
ingegnere minerario lascia il cantiere per raggiungere il padre. Nel
ricco ufficio l'anziano uomo sembra dar fuori di testa. Dice di aver
sognato Dio che piangeva, non contento di loro. Ma come, proprio lui che
si è professato ateo per tutta la vita? L'ingegnere cerca di arginare
l'emergenza con la razionalità, ma non basta. Di fronte al suicidio del
padre, resta attonito, incapace di trovare risposte. Finché, al ritorno
dal cimitero, qualcuno o qualcosa gliele dà: piove sangue. Sangue sul
cantiere, sulle gru, sui macchinari, sulla tomba e sul suo meraviglioso
fuoristrada. Sangue che solo la successiva fresca pioggerella porterà
via.
A dare unità formale, ma anche di atmosfere, ai nove
episodi sono le scelte musicali di Peter Gabriel, altro grande coinvolto
nel progetto. E' lui ad aver scritto e interpretato la canzone
originale Show Yourself che fa da colonna sonora alle immagini. Ma ciò
che più colpisce è l'unità di contenuti, l'incastrarsi dei vari episodi
come una scala a pioli che porta verso un unico punto, più in alto. A
volerla così è stato un altro gigante della cultura contemporanea: lo
scrittore peruviano Mario Vargas Llosa. “Siamo amici da tanti anni”,
racconta Arriaga, “che mi è venuto naturale fargli vedere il nostro
lavoro. Lì per lì è rimasto sorpreso: credeva che si trattasse solo di
documentari, stile National Geographic. Gli ho chiesto di riguardarli e
di dirmi in quale ordine li avrebbe messi. Lui lo ha fatto per quattro
volte, poi mi ha dato il suo montaggio. Ho protestato: mettere il mio
episodio sull'ateismo per ultimo poteva sembrare atto d'orgoglio da
parte mia. Ma lui ha ribattuto che se avevo lasciato libertà ad ogni
regista, dovevo rispettare anche la sua libertà di scelta. Aveva
ragione. D'altronde, come avrei potuto dire di no a un premio Nobel?”.