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venerdì 13 settembre 2024
 
 

Yara e quell'uomo tra le nuvole

17/06/2014  Non solo i cuccioli e il pizzetto ben curato e ossigenato, il profilo Facebook di Massimo Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio, rivela anche la passione per il volo con l'aliante. Se l'assassino è davvero lui, le foto rivelano come, tra colori e sorrisi, avesse cercato di cancellare quell'abisso del male

Massimo Giuseppe Bossetti è accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio.
Massimo Giuseppe Bossetti è accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio.

Ma davvero è lui, il presunto assassino di Yara? Quando siamo andati a vedere il suo profilo Facebook, specchio opaco e frammentario della vita dei suoi iscritti, rimasto a galleggiare come una scheggia nella Rete, abbiamo pensato persino a un caso di omonimia. Se la confessione, se altre prove irrefutabili, se una storia si aggiungerà ai numeri e alle molecole, insomma se il giudizio definitivo della giustizia dovesse aggiungersi a quella sequenza del Dna che lo inchioda alle macchie di sangue trovati sui leggins della vittima, allora è davvero sconvolgente dare un’occhiata alla vita di Massimo Giuseppe Bossetti, l’artigiano edile che da 24 ore sta in una cella del carcere di Pavia con l’accusa di omicidio della tredicenne Yara Gambirasio.

Il presunto assassino è un uomo di 40 anni, alto, curato nell’aspetto con qualche vanità nel pizzetto ossigenato, scolpito a filo con il rasoio elettrico, occhi azzurri, capelli biondi. Lo si vede su una spiaggia con la famiglia: una bella moglie, tre bambini bellissimi, una maschio e due femmine. Una deve avere più o meno l’età di Yara. E ora che Dio la protegga, quella famiglia in cui è piombato un incubo da cui si potranno risollevare solo attraverso l’affetto di chi è rimasto, l’aiuto degli psicologi, la solidarietà degli amici, il tatto dei media (la cosa più difficile, su cui non scommetterei) per ricominciare a vivere questa vita troncata un mattino di giugno. Perché ora le famiglie segnate sono diventate due.

Davvero è lui, l’assassino? Se è lui pare che avesse cercato di cancellare quell’abisso del male. Siede in soggiorno dai muri pitturati di un rosso vivace, su un divano più o meno dello stesso colore, abbracciato a un cagnolino e a un gatto. Si fa fotografare felice e premuroso con le figlie in tenuta da majorette. Posta i soliti post di Facebook, volgari e banali, molto elementari, ma sconvolge, col senno di poi, la grottesca foto di un uomo sotterrato dal catrame in quanto “asfaltato” da un caterpillar. E poi la foto di un aliante, recente passione dell’uomo. Lo immaginiamo volare tra la nuvole, nelle mattine di domenica. A cosa pensava, nel silenzio dell’abitacolo? Chissà se avrà sorvolato quel campo in cui Yara è stata lasciata morire per le ferite e per il freddo.

E’ questa la banalità del male di questa storia agghiacciante e abissale che contiene persino gli elementi dell’agnizione, come nelle tragedie greche o i romanzi di Dumas: il padre biologico che si porta dentro la tomba un mistero, la madre, forse inconsapevole forse muta, di fronte al dilemma se denunciare o no la carne della sua carne, i parenti stretti e quelli lontani cui gli investigatori sono risaliti attraverso il Dna, come arrampicandosi sui rami di un gigantesco albero genealogico, lentamente e inesorabilmente, verso la verità scientificamente provata. Perché se la storia si aggiungerà ai numeri e alle molecole, allora potremo dire che la giustizia ha fatto il suo corso, che qualunque assassino, anche se protetto da una maledetta sera di novembre avvolta dalla nebbia, anche se nessuno ha parlato e nessuno lo ha visto, una mattina d’estate verrà consegnato ai carabinieri.

 
 
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